L’accorpamento di più materie in un’unica disciplina alle scuole superiori è la vittoria della didattica fondata sul mito della "complessità". Peccato non si vada al di là delle teorie astruse. Con truffa ideologica incorporata
di Giorgio Israel
Bisogna dare atto all’associazione di insegnanti Diesse di aver colto un aspetto nevralgico della riforma dei licei. «Chi si incaponisse - si legge nella loro newsletter - sull’allarme per la riduzione delle ore di lezione e quindi delle cattedre dimostrerebbe di non rendersi conto che qualcosa si muove più in profondità», ovvero che nella riforma hanno influito «diverse suggestioni di stampo pedagogico, tali da non rendere per nulla neutro il passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento». Il riferimento è al modo in cui è stato ristrutturato l'insegnamento delle scienze nei licei tecnici e professionali, dove si affacciano le nuove «Scienze integrate», intese come materia-sintesi di Scienze della terra, Biologia, Fisica e Chimica. In realtà, le Scienze integrate sono state introdotte in modo ambiguo perché negli indirizzi del biennio continuano a essere distinte in Fisica e Chimica. Questa scelta salomonica è frutto anche del netto dissenso espresso da tutte le massime associazioni del settore - Società italiana di fisica, Società chimica italiana, Consiglio nazionale dei chimici, Associazione per l’insegnamento della fisica, Associazione insegnanti chimici - che hanno stigmatizzato la materia «polpettone» in quanto inadatta a formare un’autentica cultura scientifica e anzi atta a contribuire alla «descientificizzazione» del sistema scolastico.
L’idea delle «scienze integrate» ha origine nel periodo del ministero Fioroni durante il quale impazzava l’idea di «complessità». Ad esempio, nella normativa del 2007, si prescriveva come «competenza» per l’asse scientifico-tecnologico il «riconoscere nelle sue (sic) varie forme i concetti di sistema e di complessità». Qualsiasi «competente» in materia sa che esistono parecchie definizioni di sistema; che non esiste una definizione comunemente accettata di «complessità»; che molti considerano le «teorie della complessità» come elucubrazioni vaghe e discutibili; che non pochi (anche autorevoli) le considerano pura e semplice cialtroneria. Il punto di partenza è l’affermazione che è in crisi il paradigma riduzionista e l’idea di «semplicità» della natura: occorre studiare la realtà nella sua «complessità» apprestando strumenti analitici adeguati. Il limite di questo approccio è che la scienza non può rinunciare a una qualche forma di riduzione a strutture semplici. Difatti, la radice dei suoi successi sta nel presupposto che il grado di complessità dei suoi concetti sia maggiore di quello dei fatti naturali, altrimenti tanto varrebbe limitarsi alle descrizioni puramente verbali. Comunque, tutto ciò è materia di una discussione apertissima ed è assurdo farne un asse concettuale dell’insegnamento, che deve sempre basarsi su teorie e metodi solidamente acquisiti e riconosciuti.
Al contrario, in un documento ministeriale del 3 marzo 2008 si individuava la teoria della complessità come nuovo asse formativo in sostituzione di quello classico. Partendo da una rozza definizione di sistema complesso come «composto da un gran numero di elementi che interagiscono tra di loro» (i documenti ministeriali non dovrebbero mai avventurarsi nell’epistemologia scientifica) si predicava che il riduzionismo era stato sostituito col concetto di «emergenza», ovvero l’emergere di «dinamiche d’insieme diverse da quelle delle singole parti». Seguiva una serie di affermazioni retoriche e inconsistenti sulla complessità che «rompe i confini delle scienze» e apre la via nientemeno che all’esplorazione del «territorio della multidimensionalità del reale»... Non basta: la scienza si sarebbe trasformata da sistema piramidale a «sistema a rete con correlazioni e nodi multipli». È maramaldesco osservare che, in un analogo documento, il riduzionismo piramidale si prendeva la rivincita con la seguente affermazione materialistica: «Nel nuovo paradigma della complessità le diverse discipline si presentano come un sistema a rete. Le più recenti ricerche sulle modalità di funzionamento dei nostri processi cerebrali individuano la natura costruttivistica e sociale del conoscere».
Piramide o no, è da chiedersi con quale diritto si meni scandalo se qualcuno propone di insegnare in modo critico - non di «non» insegnare, ma di insegnare in modo critico, ovvero scientifico - la teoria dell’evoluzione e poi si ritenga legittimo fondare un intero asse dell’istruzione su un’ideologia così unilaterale.
Troppe cose non vanno in questa costruzione. Non va la presentazione schematica e propagandistica della teoria della complessità, dando per buona la sua accettazione unanime nel mondo scientifico. Oggi la scienza è ancora largamente dominata dall’approccio riduzionista e molti sostengono che, in fin dei conti, le teorie della complessità ricorrono alle stesse metodologie che sono al cuore degli approcci tradizionali. Occorrerebbe rileggere i saggi del compianto Antonio Lepschy per capire quanto la materia sia «complessa» e controversa. Non ha fondamento presentare la scienza contemporanea come un sistema a rete basato sull’uso sistematico del concetto di «emergenza». Non ha fondamento sostenere che le ricerche sui processi cerebrali accreditino la natura costruttivistica del conoscere. Tantomeno è legittimo dare per scontato che si possano dedurre le forme della conoscenza dai processi cerebrali.
Se alla fine del percorso, la riduzione della libertà a «emergenza» ci regala il costruttivismo, ovvero una nuova versione di un meccanicismo materialistico negatore della creatività e libertà, per giunta gabellando un’ideologia per scienza, si ha il diritto di rispondere: «No, grazie». Ha ragione Gaetano Quagliariello a mettere in guardia contro «il tentativo di una sinistra costruttivista sconfitta per la quale la società doveva essere il paradiso in terra, di trasferire quello stesso costruttivismo nella vita dell’individuo», e facendo così rivivere la «mentalità del comunismo sotto mentite spoglie»; ed è legittimo ribadire l’idea che «la vita ha sempre la possibilità di meravigliarci, fino all’ultimo momento ed è su questo principio che basiamo la nostra libertà».
Ad ogni modo, insistiamo, tutta questa è ideologia, e non è lecito costruirvi sopra un asse formativo scolastico. Anche qui ha ragione Diesse a osservare che «solo l’esperienza dei docenti sul campo potrà portare contributi davvero “costruttivi”». È da augurarsi che questi contributi costruttivi consistano, nella pratica effettiva dell’insegnamento e avvalendosi della distinzione tra indirizzi nelle «scienze integrate», di vanificare un tentativo che può avere soltanto effetti distruttivi nella formazione di un’autentica cultura scientifica.
L’idea delle «scienze integrate» ha origine nel periodo del ministero Fioroni durante il quale impazzava l’idea di «complessità». Ad esempio, nella normativa del 2007, si prescriveva come «competenza» per l’asse scientifico-tecnologico il «riconoscere nelle sue (sic) varie forme i concetti di sistema e di complessità». Qualsiasi «competente» in materia sa che esistono parecchie definizioni di sistema; che non esiste una definizione comunemente accettata di «complessità»; che molti considerano le «teorie della complessità» come elucubrazioni vaghe e discutibili; che non pochi (anche autorevoli) le considerano pura e semplice cialtroneria. Il punto di partenza è l’affermazione che è in crisi il paradigma riduzionista e l’idea di «semplicità» della natura: occorre studiare la realtà nella sua «complessità» apprestando strumenti analitici adeguati. Il limite di questo approccio è che la scienza non può rinunciare a una qualche forma di riduzione a strutture semplici. Difatti, la radice dei suoi successi sta nel presupposto che il grado di complessità dei suoi concetti sia maggiore di quello dei fatti naturali, altrimenti tanto varrebbe limitarsi alle descrizioni puramente verbali. Comunque, tutto ciò è materia di una discussione apertissima ed è assurdo farne un asse concettuale dell’insegnamento, che deve sempre basarsi su teorie e metodi solidamente acquisiti e riconosciuti.
Al contrario, in un documento ministeriale del 3 marzo 2008 si individuava la teoria della complessità come nuovo asse formativo in sostituzione di quello classico. Partendo da una rozza definizione di sistema complesso come «composto da un gran numero di elementi che interagiscono tra di loro» (i documenti ministeriali non dovrebbero mai avventurarsi nell’epistemologia scientifica) si predicava che il riduzionismo era stato sostituito col concetto di «emergenza», ovvero l’emergere di «dinamiche d’insieme diverse da quelle delle singole parti». Seguiva una serie di affermazioni retoriche e inconsistenti sulla complessità che «rompe i confini delle scienze» e apre la via nientemeno che all’esplorazione del «territorio della multidimensionalità del reale»... Non basta: la scienza si sarebbe trasformata da sistema piramidale a «sistema a rete con correlazioni e nodi multipli». È maramaldesco osservare che, in un analogo documento, il riduzionismo piramidale si prendeva la rivincita con la seguente affermazione materialistica: «Nel nuovo paradigma della complessità le diverse discipline si presentano come un sistema a rete. Le più recenti ricerche sulle modalità di funzionamento dei nostri processi cerebrali individuano la natura costruttivistica e sociale del conoscere».
Piramide o no, è da chiedersi con quale diritto si meni scandalo se qualcuno propone di insegnare in modo critico - non di «non» insegnare, ma di insegnare in modo critico, ovvero scientifico - la teoria dell’evoluzione e poi si ritenga legittimo fondare un intero asse dell’istruzione su un’ideologia così unilaterale.
Troppe cose non vanno in questa costruzione. Non va la presentazione schematica e propagandistica della teoria della complessità, dando per buona la sua accettazione unanime nel mondo scientifico. Oggi la scienza è ancora largamente dominata dall’approccio riduzionista e molti sostengono che, in fin dei conti, le teorie della complessità ricorrono alle stesse metodologie che sono al cuore degli approcci tradizionali. Occorrerebbe rileggere i saggi del compianto Antonio Lepschy per capire quanto la materia sia «complessa» e controversa. Non ha fondamento presentare la scienza contemporanea come un sistema a rete basato sull’uso sistematico del concetto di «emergenza». Non ha fondamento sostenere che le ricerche sui processi cerebrali accreditino la natura costruttivistica del conoscere. Tantomeno è legittimo dare per scontato che si possano dedurre le forme della conoscenza dai processi cerebrali.
Se alla fine del percorso, la riduzione della libertà a «emergenza» ci regala il costruttivismo, ovvero una nuova versione di un meccanicismo materialistico negatore della creatività e libertà, per giunta gabellando un’ideologia per scienza, si ha il diritto di rispondere: «No, grazie». Ha ragione Gaetano Quagliariello a mettere in guardia contro «il tentativo di una sinistra costruttivista sconfitta per la quale la società doveva essere il paradiso in terra, di trasferire quello stesso costruttivismo nella vita dell’individuo», e facendo così rivivere la «mentalità del comunismo sotto mentite spoglie»; ed è legittimo ribadire l’idea che «la vita ha sempre la possibilità di meravigliarci, fino all’ultimo momento ed è su questo principio che basiamo la nostra libertà».
Ad ogni modo, insistiamo, tutta questa è ideologia, e non è lecito costruirvi sopra un asse formativo scolastico. Anche qui ha ragione Diesse a osservare che «solo l’esperienza dei docenti sul campo potrà portare contributi davvero “costruttivi”». È da augurarsi che questi contributi costruttivi consistano, nella pratica effettiva dell’insegnamento e avvalendosi della distinzione tra indirizzi nelle «scienze integrate», di vanificare un tentativo che può avere soltanto effetti distruttivi nella formazione di un’autentica cultura scientifica.
«Il Giornale» del 25 febbraio 2010
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