Un saggio indaga la «cultura visuale» del socialismo reale che, non riuscendo a cambiare la realtà, stravolgeva le immagini da offrire al mondo
di Luca Gallesi
Parlare oggi di 'stalinismo' fa pensare a qualcosa di irrimediabilmente vecchio, un lontano reperto del Novecento da relegare per alcuni nell’armadio dei ricordi e da tirar fuori, per altri, da quello degli scheletri.
Giovannino Guareschi, che con Peppone ha creato il più azzeccato archetipo dello stalinista nostrano, ha messo in bocca a uno dei suoi personaggi una battuta che sintetizza il culto di Stalin diffuso tra i comunisti negli anni Cinquanta: «La sola differenza – disse lo Smilzo – è che, mentre il vostro Dio nessuno la ha mai visto, Stalin lo si può vedere e toccare. E se anche io non l’ho visto e toccato si può vedere quello che Stalin ha creato: il Comunismo!». A Stalin, e al comunismo sovietico della sua epoca, ha dedicato un bel volume Gian Piero Piretto, docente di Cultura russa all’Università degli studi di Milano, autore di Gli occhi di Stalin. La cultura visuale sovietica nell’era staliniana , un saggio che analizza in modo particolare la percezione visiva durante il periodo del socialismo reale. Ogni mezzo di comunicazione di massa disponibile è infatti utilizzato dal regime per convogliare il messaggio, indiscusso e indiscutibile, che «la vita sovietica è bella». E, dato che trasformare la realtà non è così facile, il comunismo staliniano si è dato da fare per modificare l’apparenza.
Via, quindi, tutte le Avanguardie che, dal cinema alle arti figurative, avevano partecipato in buona fede alla Rivoluzione, descrivendone speranze e paure nelle loro opere.
Per esempio, la censura relega tra gli archivi dell’Ufficio politico un numero impressionante di film, impedendone la circolazione. Non è permesso nessun dubbio, né viene accettata la descrizione della vita com’era realmente: soltanto un vuoto e superficiale trionfalismo è ammesso e, anzi, incoraggiato, tanto nelle opere d’arte che nel cinema, dalla letteratura all’architettura, fino a quei mezzi di comunicazione popolari come i manifesti, le confezioni di prodotti di largo consumo e persino le scatole di fiammiferi, su cui vengono riprodotte immagini propagandistiche. «Vedere, obbedire e combattere» sembra essere lo slogan di un regime pervasivo e onnipresente che dal dinamismo rivoluzionario di Lenin è passato alla ieraticità statica di Stalin. La Piazza Rossa diventa uno spazio sacro, dove il Capo si manifesta nelle rare occasioni ufficiali, pronto a ricevere l’omaggio delle folle disciplinate che gli rimandano l’immagine di se stesso riflessa nelle statue e nei ritratti che affollano le parate. Il suo sguardo ribadisce la superiorità e l’eccellenza che lo caratterizzano, soddisfacendo così quella caratteristica dell’animo russo descritta da Piretto come proverbiale rassegnazione e storica pazienza con cui prima i sudditi dello zar, poi i cittadini sovietici, accettavano vessazioni e tormenti senza protestare. Le cose, oggi, sono cambiate? Una risposta forse ce la dà un servizio televisivo della parata commemorativa del sessantesimo anniversario della vittoria, trasmesso nel 2005 dal Tg3 Rai.
Dopo il filmato ufficiale della parata militare, a metà tra la sfilata in costume e l’operetta, il servizio ci mostrava una manifestazione non autorizzata: sulla piazza della stazione di Bielorussia uno sparuto gruppetto di veterani fronteggiato da poliziotti antisommossa inneggiava a Stalin intonando cori nostalgici. Un accostamento di immagini egualmente false e superficiali, almeno nel confronto con la realtà. Tutto cambia, perché nulla cambi, insomma, nel trionfo dell’apparenza e nell’indifferenza alla verità.
Giovannino Guareschi, che con Peppone ha creato il più azzeccato archetipo dello stalinista nostrano, ha messo in bocca a uno dei suoi personaggi una battuta che sintetizza il culto di Stalin diffuso tra i comunisti negli anni Cinquanta: «La sola differenza – disse lo Smilzo – è che, mentre il vostro Dio nessuno la ha mai visto, Stalin lo si può vedere e toccare. E se anche io non l’ho visto e toccato si può vedere quello che Stalin ha creato: il Comunismo!». A Stalin, e al comunismo sovietico della sua epoca, ha dedicato un bel volume Gian Piero Piretto, docente di Cultura russa all’Università degli studi di Milano, autore di Gli occhi di Stalin. La cultura visuale sovietica nell’era staliniana , un saggio che analizza in modo particolare la percezione visiva durante il periodo del socialismo reale. Ogni mezzo di comunicazione di massa disponibile è infatti utilizzato dal regime per convogliare il messaggio, indiscusso e indiscutibile, che «la vita sovietica è bella». E, dato che trasformare la realtà non è così facile, il comunismo staliniano si è dato da fare per modificare l’apparenza.
Via, quindi, tutte le Avanguardie che, dal cinema alle arti figurative, avevano partecipato in buona fede alla Rivoluzione, descrivendone speranze e paure nelle loro opere.
Per esempio, la censura relega tra gli archivi dell’Ufficio politico un numero impressionante di film, impedendone la circolazione. Non è permesso nessun dubbio, né viene accettata la descrizione della vita com’era realmente: soltanto un vuoto e superficiale trionfalismo è ammesso e, anzi, incoraggiato, tanto nelle opere d’arte che nel cinema, dalla letteratura all’architettura, fino a quei mezzi di comunicazione popolari come i manifesti, le confezioni di prodotti di largo consumo e persino le scatole di fiammiferi, su cui vengono riprodotte immagini propagandistiche. «Vedere, obbedire e combattere» sembra essere lo slogan di un regime pervasivo e onnipresente che dal dinamismo rivoluzionario di Lenin è passato alla ieraticità statica di Stalin. La Piazza Rossa diventa uno spazio sacro, dove il Capo si manifesta nelle rare occasioni ufficiali, pronto a ricevere l’omaggio delle folle disciplinate che gli rimandano l’immagine di se stesso riflessa nelle statue e nei ritratti che affollano le parate. Il suo sguardo ribadisce la superiorità e l’eccellenza che lo caratterizzano, soddisfacendo così quella caratteristica dell’animo russo descritta da Piretto come proverbiale rassegnazione e storica pazienza con cui prima i sudditi dello zar, poi i cittadini sovietici, accettavano vessazioni e tormenti senza protestare. Le cose, oggi, sono cambiate? Una risposta forse ce la dà un servizio televisivo della parata commemorativa del sessantesimo anniversario della vittoria, trasmesso nel 2005 dal Tg3 Rai.
Dopo il filmato ufficiale della parata militare, a metà tra la sfilata in costume e l’operetta, il servizio ci mostrava una manifestazione non autorizzata: sulla piazza della stazione di Bielorussia uno sparuto gruppetto di veterani fronteggiato da poliziotti antisommossa inneggiava a Stalin intonando cori nostalgici. Un accostamento di immagini egualmente false e superficiali, almeno nel confronto con la realtà. Tutto cambia, perché nulla cambi, insomma, nel trionfo dell’apparenza e nell’indifferenza alla verità.
Gian Piero Piretto, Gli occhi di Stalin, La cultura visuale sovietica nell’era staliniana, Cortina, pp. 248, € 22,00
«Avvenire» del 27 febbraio 2010
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