La condanna di Google
di Vittorio Sabadin
Dal punto di vista di Google, l'aspetto più preoccupante della sentenza di Milano è che ogni video dovrà subire un controllo prima di essere messo online su YouTube. Poiché ogni minuto che passa circa 20 ore di nuovi filmati vengono caricati nel mondo, la decisione del tribunale mette i brividi. Un lettore del Guardian, in uno dei tanti blog subito aperti sull'argomento dai giornali europei ed americani, ha provato a fare i conti: pagando gli addetti alle revisioni anche solo 5 dollari l'ora, il costo annuo del controllo preventivo dei filmati supererebbe gli 80 milioni di dollari.
Ma questa è una ipotesi di cui Google non vuole nemmeno sentire parlare: ha pagato YouTube 1,6 miliardi di dollari nel 2006 e non ha ancora scoperto come farci soldi. L'anno scorso il sito di filmati più visitato al mondo ha perso tra i 100 e i 500 milioni di dollari e dunque non è proprio il caso di caricarlo di altre spese assumendo esseri umani al posto dei computer.
Dietro agli appelli per la doverosa difesa della libertà del web i dirigenti di Google cercano di mascherare una realtà meno nitida, che vede il principale motore di ricerca sotto attacco su vari fronti. L'editore Rupert Murdoch lo accusa di cannibalismo perché rende disponibili gratuitamente i contenuti pubblicati dai giornali; l'Unione Europea ha aperto una indagine per posizione dominante; gli autori di libri sono preoccupatissimi per il progetto di mettere online le loro opere, e gli utenti di Buzz (l'alternativa a Facebook) hanno scoperto con orrore che Google li conosce già a fondo e custodisce la lista completa dei loro amici.
La sentenza di Milano non mette in pericolo la libertà di Internet, ma si limita a cercare di porre un confine tra la libertà e l'anarchia, ricordandoci che il potere richiede responsabilità e rispetto dei diritti degli altri. Chiunque abbia un proprio website o possa accedere ad un service è in grado di mettere online un video, ma è individualmente responsabile di quello che fa. Google pretende di non esserlo, poiché afferma di non poter controllare tutto. Il suo obiettivo è cercare di fare valere in ogni parte del mondo le leggi della California, cosa che ai giudici europei ovviamente non piace. Se Google cerca di trarre profitto da YouTube, ha sentenziato il magistrato milanese, si assume anche degli obblighi e non può agire al di fuori delle leggi italiane. E questa volta non può nemmeno fare finta di non sapere: il video incriminato è rimasto infatti online per due mesi, ed è stato tra i più visti nella sezione «Video divertenti».
In gioco non sono i principi di libertà, che vanno sempre salvaguardati. Come ha detto Hillary Clinton, «Internet libero è un diritto umano inalienabile e va tutelato». Pretendere di censurare il web per evitare violazioni è come illudersi di trovare un modo per non fare commettere più reati, è impossibile. L'importante è che ci siano sistemi di controllo che intervengono quando un reato viene commesso, e che i colpevoli vengano identificati e puniti.
Ma Google, YouTube, Yahoo! e altri grandi operatori del web hanno sempre pensato di essere intoccabili semplicemente perché non sapevano che cosa c’era nei loro server. La sentenza di Milano ha stabilito che questa scusa non è più accettabile quando si trae profitto dalla grande quantità di contenuti messi a disposizione spesso senza il minimo rispetto per i diritti di copyright, per la tutela della privacy e della decenza. Occorre dunque esercitare un controllo rimuovendo con rapidità quello che va rimosso. Anche se fa male al business.
Ma questa è una ipotesi di cui Google non vuole nemmeno sentire parlare: ha pagato YouTube 1,6 miliardi di dollari nel 2006 e non ha ancora scoperto come farci soldi. L'anno scorso il sito di filmati più visitato al mondo ha perso tra i 100 e i 500 milioni di dollari e dunque non è proprio il caso di caricarlo di altre spese assumendo esseri umani al posto dei computer.
Dietro agli appelli per la doverosa difesa della libertà del web i dirigenti di Google cercano di mascherare una realtà meno nitida, che vede il principale motore di ricerca sotto attacco su vari fronti. L'editore Rupert Murdoch lo accusa di cannibalismo perché rende disponibili gratuitamente i contenuti pubblicati dai giornali; l'Unione Europea ha aperto una indagine per posizione dominante; gli autori di libri sono preoccupatissimi per il progetto di mettere online le loro opere, e gli utenti di Buzz (l'alternativa a Facebook) hanno scoperto con orrore che Google li conosce già a fondo e custodisce la lista completa dei loro amici.
La sentenza di Milano non mette in pericolo la libertà di Internet, ma si limita a cercare di porre un confine tra la libertà e l'anarchia, ricordandoci che il potere richiede responsabilità e rispetto dei diritti degli altri. Chiunque abbia un proprio website o possa accedere ad un service è in grado di mettere online un video, ma è individualmente responsabile di quello che fa. Google pretende di non esserlo, poiché afferma di non poter controllare tutto. Il suo obiettivo è cercare di fare valere in ogni parte del mondo le leggi della California, cosa che ai giudici europei ovviamente non piace. Se Google cerca di trarre profitto da YouTube, ha sentenziato il magistrato milanese, si assume anche degli obblighi e non può agire al di fuori delle leggi italiane. E questa volta non può nemmeno fare finta di non sapere: il video incriminato è rimasto infatti online per due mesi, ed è stato tra i più visti nella sezione «Video divertenti».
In gioco non sono i principi di libertà, che vanno sempre salvaguardati. Come ha detto Hillary Clinton, «Internet libero è un diritto umano inalienabile e va tutelato». Pretendere di censurare il web per evitare violazioni è come illudersi di trovare un modo per non fare commettere più reati, è impossibile. L'importante è che ci siano sistemi di controllo che intervengono quando un reato viene commesso, e che i colpevoli vengano identificati e puniti.
Ma Google, YouTube, Yahoo! e altri grandi operatori del web hanno sempre pensato di essere intoccabili semplicemente perché non sapevano che cosa c’era nei loro server. La sentenza di Milano ha stabilito che questa scusa non è più accettabile quando si trae profitto dalla grande quantità di contenuti messi a disposizione spesso senza il minimo rispetto per i diritti di copyright, per la tutela della privacy e della decenza. Occorre dunque esercitare un controllo rimuovendo con rapidità quello che va rimosso. Anche se fa male al business.
«La Stampa» del 25 febbraio 2010
Nessun commento:
Posta un commento