di Massimiliano Castellani
Il passato è una terra straniera. Ci sono dei luoghi, sempre più rari, in cui il passato si è fermato, ha lasciato che il mondo infelice, confuso e assordante, rimanesse fuori dalla porta di casa. La chiave, come per miracolo è ancora lì, attaccata alla porta della casa di legno, dove arriva trascinata da una fola di mistral, la voce di ieri, che riporta la lingua del Poeta di Casarsa: « Fontana di aga dal me país. A no è aga pí fres- cia che tal me país. Fontana di rustic amòur». (« Fontana d’acqua del mio paese. Non c’è acqua più fresca che nel mio paese. Fontana di rustico amore»). In questa foglia di terra furlana, sono rimasti gli ultimi cantori della lingua materna di Pier Paolo Pasolini.
All’occorrenza usano quell’idioma carsico, antico, come lame per sferzare le coscienze intorpidite dalla postmodernità, o come fiori che crescono spontanei in quei boschi e prati da cui « spuntavano quartine, qui tutto passa con il rumore di sempre » . Sono i versi di Pierluigi Cappello, 42 anni, ultimo Premio Montale prima del congedo definitivo (nel 2004) del prestigioso riconoscimento che lo ha lasciato anche senza il prezioso assegno. E sì che i poeti sguazzano nell’oro. Ma Cappello passa e va avanti, con dignità da principe vive nel rione della casette di legno di Tricesimo (in via San Francesco), traccia indelebile di quel tragico terremoto che colpì il Friuli il 6 maggio del 1976. Aveva 9 anni allora, arroccato nel borgo natale di Chiusaforte in cui il vecchio « Silvio intrecciava canestri con mezzo cuore e il cuore dei bambini intorno» . Lui correva spensierato con il passo da maratoneta, fino al giorno in cui la sua moto scivolò in terra e lo costrinse a viaggiare su una carrozzina. Però il poeta ha grandi ali, resistenti, e insieme ai suoi versi si è messo in Assetto di volo - raccolta appena tradotta in sloveno dalla casa “ Hisaa- poezijee” - . Cose della vita che fanno piangere anche i preti.
Del resto, Cappello ricorda che essere gente di Friuli vuol dire avere l’anima avvezza ai salustris: «Sostantivo che indica quell’azzurra lucidità del cielo tra un temporale e l’altro, uno squarcio di salute prima della ricaduta nella tempesta » . Prima di lui hanno vissuto in questo status dell’anima tutti i poeti della sua razza. Da Pasolini appunto, a Elio Bartolini, passando per la voce narrante de Gli ultimi Padre Davide Maria Turoldo, fino a Biagio Marin.
Dall’enoico Amedeo Giacomini che con Cappello, girando di frasca in frasca, ritroviamo oniricamente con il suo bicchiere pieno di poesia, assetato di fragolino e ramandolo, lì all’osteria di Nimis. In ogni villaggio petroso c’è un fogolâr di passione che viene tenuto acceso dalla memoria. Quella solida e di legno buono che intaglia Aldo Colonnello insieme a Rosanna Paroni Bertoja animatori assoluti del Circolo Menocchio. Avamposto a difesa della tradizione popolare che ricorda fin dal nome la « preziosa eresia», del mugnaio di Montereale Valcellina, arso sul rogo dall’Inquisizione, un anno prima di Giordano Bruno, nel 1599. Voci eretiche, rispetto alla banalità del male quotidiano, sono tutte queste ombre di carne e sangue, ma impastate di spiritualità eterna, come la poetessa di Navarons di Meduno, Novella Cantarutti. È appena andata via, per sempre, ma nell’attimo prima di incamminarsi nei suoi «sentieri senza luna», deve aver recitato alla grande Signora delle tenebre: «Co tu mi rivi’, tu cerpìs il scûr » - « Quando giungi a me, dissolvi il buio » - .
E al buio, dietro alla persiana della sua casetta fatata di Poffabro, ascoltava le nostri voci di ospiti inattesi Ida Vallerugo, ultima regina della poesia friulana. Lo sa bene una fine studiosa di questi cantori, Anna De Simone, che considera la sua raccolta Maa Onda « uno dei capisaldi dell’attuale poesia friulana insieme a Il me Donzel di Pierluigi Cappello». Maa Onda è il canto del cigno della nonna della Vallerugo, simbolo di una civiltà contadina che è svanita, insieme a una lingua che resiste, si aggrappa e riaffiora in superficie, solo attraverso queste voci degli ultimi poeti distinti. « Il dolour Mâri, da disi di nô / in una lenga c’a mour » , « Il dolore Madre, di dire di noi/ in una lingua che muore » , recita la Vallerugo ne La distancja . Il loro atto d’amore disperato è tenere ancora in vita quella lingua madre. Rimanere attaccati al paese dove si è nati e popolare la distanza che c’è tra chi vive nel solco del sogno passato e la realtà che è sempre più apparente. La sensazione forte che hanno avuto i tanti malati di realismo, è che passando accanto a questi trovatori di nùvuli’, che si ridestano ascoltando il suono delle campane della catedrâl del paese, sappiano ancora dare un senso alla parola vita, come dono di Dio. La Vallerugo ritrova il volto del Cristo in quello di suo padre che « sapeva disegnare ai vetri d’inverno nella condensa » . La vita è viaggio « e la strada è la più bella cattedrale».
Come quella piccola chiesa di Andreis dove si sente ancora la voce tuonante di Federico Tavan che di questo paese ha fatto la sua “ Spoon River”. Alla Locanda di Franco e Cristiana, tutto parla di lui, del poeta folle, del cucciolo di uomo abbandonato a caccia solo di un abbraccio.
« Al mattino quando entrava nel Bar ci chiedeva un caffè con dodici gocce di latte… Dolce Federico, per noi è come un figlio » , ricorda Cristiana ridendo e asciugando le lacrime sul grembiule da cucina. Prima di cadere nell’abisso del male oscuro, dal buio in cui si trova, Tavan ha avuto uno sguardo e un verso per tutti. La sua poesia si ritrova persino tra i rifiuti dell’immondizia: « Dove buttano il bidone?
Dove buttano la spazzatura? Ha bei colori e la gente di questo si meraviglia » .
Più di tutti, al lume di una candela o sotto la luce fioca del lampione, nelle notti gelide dell’inverno di Andreis, dentro al suo maglione si è avvicinato all’anima del Maestro di Casarsa e piangendolo gli ha sussurrato: « Massacrato fatto a pezzi e schiacciato sulla strada. Tu ci hai spiegato la storia dei muri alti, muri alti del palazzo, catene che tu volevi rompere… » . Un’utopia concreta quel rompere le catene, che Tavan ha coltivato nel suo universo psichiatrico, dal quale ringrazia « la pazzia che m’ha permesso di restare me stesso, alla faccia della società dei consumi e del mondo moderno». Messaggio che è arrivato dritto alla casella del cuore e non quella elettronica di Erri De Luca, Pedrag Matvejevic, Carlo Ginzburg e Marco Paolini, che sono saliti fin qui per ascoltare il nin, il bambino Federico, che crescendo, nel fervido confronto serale del Circolo Menocchio, si è fatto poeta, ma sentendosi sempre « un pentolone / tra rospi e intrugli / di streghe senza processo». Così cantava il merlo vagabondo che adesso è senza voce, ma la poesia qui, come in nessun altro posto di questo Paese diventato tristemente impoetico, anche i bambini riescono ancora ad ascoltarla e a capirla, in un silenzio che per Cappello è il « luogo dove tutte la parole sono possibili».
In questo universo estatico tutto sembra essersi fermato, ma nessuno ha mai gridato allo scandalo. E il poeta più giovane, prima di richiudere la porta della sua casa di legno, lascia aperto uno spiraglio di luce, per domani: «L’immobilità come regione dove ogni gesto è concepibile. Ogni libro è una voce in attesa di un corpo… Le tasche piene di sassi, la memoria di voi che trema in noi come una stella incoronata di buio».
All’occorrenza usano quell’idioma carsico, antico, come lame per sferzare le coscienze intorpidite dalla postmodernità, o come fiori che crescono spontanei in quei boschi e prati da cui « spuntavano quartine, qui tutto passa con il rumore di sempre » . Sono i versi di Pierluigi Cappello, 42 anni, ultimo Premio Montale prima del congedo definitivo (nel 2004) del prestigioso riconoscimento che lo ha lasciato anche senza il prezioso assegno. E sì che i poeti sguazzano nell’oro. Ma Cappello passa e va avanti, con dignità da principe vive nel rione della casette di legno di Tricesimo (in via San Francesco), traccia indelebile di quel tragico terremoto che colpì il Friuli il 6 maggio del 1976. Aveva 9 anni allora, arroccato nel borgo natale di Chiusaforte in cui il vecchio « Silvio intrecciava canestri con mezzo cuore e il cuore dei bambini intorno» . Lui correva spensierato con il passo da maratoneta, fino al giorno in cui la sua moto scivolò in terra e lo costrinse a viaggiare su una carrozzina. Però il poeta ha grandi ali, resistenti, e insieme ai suoi versi si è messo in Assetto di volo - raccolta appena tradotta in sloveno dalla casa “ Hisaa- poezijee” - . Cose della vita che fanno piangere anche i preti.
Del resto, Cappello ricorda che essere gente di Friuli vuol dire avere l’anima avvezza ai salustris: «Sostantivo che indica quell’azzurra lucidità del cielo tra un temporale e l’altro, uno squarcio di salute prima della ricaduta nella tempesta » . Prima di lui hanno vissuto in questo status dell’anima tutti i poeti della sua razza. Da Pasolini appunto, a Elio Bartolini, passando per la voce narrante de Gli ultimi Padre Davide Maria Turoldo, fino a Biagio Marin.
Dall’enoico Amedeo Giacomini che con Cappello, girando di frasca in frasca, ritroviamo oniricamente con il suo bicchiere pieno di poesia, assetato di fragolino e ramandolo, lì all’osteria di Nimis. In ogni villaggio petroso c’è un fogolâr di passione che viene tenuto acceso dalla memoria. Quella solida e di legno buono che intaglia Aldo Colonnello insieme a Rosanna Paroni Bertoja animatori assoluti del Circolo Menocchio. Avamposto a difesa della tradizione popolare che ricorda fin dal nome la « preziosa eresia», del mugnaio di Montereale Valcellina, arso sul rogo dall’Inquisizione, un anno prima di Giordano Bruno, nel 1599. Voci eretiche, rispetto alla banalità del male quotidiano, sono tutte queste ombre di carne e sangue, ma impastate di spiritualità eterna, come la poetessa di Navarons di Meduno, Novella Cantarutti. È appena andata via, per sempre, ma nell’attimo prima di incamminarsi nei suoi «sentieri senza luna», deve aver recitato alla grande Signora delle tenebre: «Co tu mi rivi’, tu cerpìs il scûr » - « Quando giungi a me, dissolvi il buio » - .
E al buio, dietro alla persiana della sua casetta fatata di Poffabro, ascoltava le nostri voci di ospiti inattesi Ida Vallerugo, ultima regina della poesia friulana. Lo sa bene una fine studiosa di questi cantori, Anna De Simone, che considera la sua raccolta Maa Onda « uno dei capisaldi dell’attuale poesia friulana insieme a Il me Donzel di Pierluigi Cappello». Maa Onda è il canto del cigno della nonna della Vallerugo, simbolo di una civiltà contadina che è svanita, insieme a una lingua che resiste, si aggrappa e riaffiora in superficie, solo attraverso queste voci degli ultimi poeti distinti. « Il dolour Mâri, da disi di nô / in una lenga c’a mour » , « Il dolore Madre, di dire di noi/ in una lingua che muore » , recita la Vallerugo ne La distancja . Il loro atto d’amore disperato è tenere ancora in vita quella lingua madre. Rimanere attaccati al paese dove si è nati e popolare la distanza che c’è tra chi vive nel solco del sogno passato e la realtà che è sempre più apparente. La sensazione forte che hanno avuto i tanti malati di realismo, è che passando accanto a questi trovatori di nùvuli’, che si ridestano ascoltando il suono delle campane della catedrâl del paese, sappiano ancora dare un senso alla parola vita, come dono di Dio. La Vallerugo ritrova il volto del Cristo in quello di suo padre che « sapeva disegnare ai vetri d’inverno nella condensa » . La vita è viaggio « e la strada è la più bella cattedrale».
Come quella piccola chiesa di Andreis dove si sente ancora la voce tuonante di Federico Tavan che di questo paese ha fatto la sua “ Spoon River”. Alla Locanda di Franco e Cristiana, tutto parla di lui, del poeta folle, del cucciolo di uomo abbandonato a caccia solo di un abbraccio.
« Al mattino quando entrava nel Bar ci chiedeva un caffè con dodici gocce di latte… Dolce Federico, per noi è come un figlio » , ricorda Cristiana ridendo e asciugando le lacrime sul grembiule da cucina. Prima di cadere nell’abisso del male oscuro, dal buio in cui si trova, Tavan ha avuto uno sguardo e un verso per tutti. La sua poesia si ritrova persino tra i rifiuti dell’immondizia: « Dove buttano il bidone?
Dove buttano la spazzatura? Ha bei colori e la gente di questo si meraviglia » .
Più di tutti, al lume di una candela o sotto la luce fioca del lampione, nelle notti gelide dell’inverno di Andreis, dentro al suo maglione si è avvicinato all’anima del Maestro di Casarsa e piangendolo gli ha sussurrato: « Massacrato fatto a pezzi e schiacciato sulla strada. Tu ci hai spiegato la storia dei muri alti, muri alti del palazzo, catene che tu volevi rompere… » . Un’utopia concreta quel rompere le catene, che Tavan ha coltivato nel suo universo psichiatrico, dal quale ringrazia « la pazzia che m’ha permesso di restare me stesso, alla faccia della società dei consumi e del mondo moderno». Messaggio che è arrivato dritto alla casella del cuore e non quella elettronica di Erri De Luca, Pedrag Matvejevic, Carlo Ginzburg e Marco Paolini, che sono saliti fin qui per ascoltare il nin, il bambino Federico, che crescendo, nel fervido confronto serale del Circolo Menocchio, si è fatto poeta, ma sentendosi sempre « un pentolone / tra rospi e intrugli / di streghe senza processo». Così cantava il merlo vagabondo che adesso è senza voce, ma la poesia qui, come in nessun altro posto di questo Paese diventato tristemente impoetico, anche i bambini riescono ancora ad ascoltarla e a capirla, in un silenzio che per Cappello è il « luogo dove tutte la parole sono possibili».
In questo universo estatico tutto sembra essersi fermato, ma nessuno ha mai gridato allo scandalo. E il poeta più giovane, prima di richiudere la porta della sua casa di legno, lascia aperto uno spiraglio di luce, per domani: «L’immobilità come regione dove ogni gesto è concepibile. Ogni libro è una voce in attesa di un corpo… Le tasche piene di sassi, la memoria di voi che trema in noi come una stella incoronata di buio».
«Avvenire» del 21 febbraio 2010
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