Il poeta siriano attacca il fondamentalismo islamico che cancella la donna come soggetto e la riduce a un' appendice del maschio. E intanto esce, da Guanda, il nuovo libro
di Adonis
Non è un simbolo della fede, ma un oltraggio ai principi della democrazia
Nonostante l'eccessivo attaccamento religioso di alcuni al velo (hijab), esso non è uno dei pilastri dell'Islam. Se così fosse stato, ci sarebbe un Testo al riguardo, come c' è per la preghiera, il digiuno, l'elemosina, il pellegrinaggio e la jihad (la difesa dell'Islam). Invece non abbiamo un Testo coranico preciso e chiaro che faccia del velo un pilastro dell'Islam. Piuttosto è una questione semireligiosa, accostabile più alla consuetudine, al mantenimento di un certo contegno o a una condotta decorosa. La storia ci dice che nella pratica molte musulmane di alto rango sociale e religioso non mettevano il velo per rivolgersi agli uomini. L'attaccamento al velo sembra rivelare una strategia politica e sociale che mira a legare il presente a un passato illusorio da un punto di vista religioso, in modo che si preservi nella pratica e nella memoria collettiva. Ciò rivela un'arbitraria e ottusa interpretazione di alcuni testi religiosi e indica il senso profondo della natura dei rapporti fra uomo e donna all' interno della società arabo-islamica. Il senso del velo sta nel suo essere la manifestazione più evidente del rafforzamento del dominio maschilista-patriarcale sulla società. E potrebbe essere la manifestazione più evidente del sentimento del maschio-padre che «escludendo» la donna esclude un «nemico», evidenziando così, in modo diretto ed eclatante, la vittoria della virilità-paternità. Attuando questa «esclusione», gestendo la donna a suo piacimento, il maschio-padre sente di avere in pugno la «maternità», ossia il futuro delle «nascite», e di controllare l'andamento delle nascite nella società, oltre ad avere in pugno la cosa più bella: la femminilità. In tal modo è più tranquillo nella fede perché sente che con questa sua azione compie un «esercizio» preordinato nel quale le donne, nella vita terrena, vivono all' ombra dell' uomo e sotto la sua protezione, per apparire in perfetto splendore, senza velo, dopo la morte, in paradiso, in forma di ninfe (huri) al totale servizio dei desideri dei maschi fedeli. A dire il vero, la geografia dell'aldilà, nell'immaginario islamico, è illuminante per la comprensione della geografia del mondo terreno. Anzi, non possiamo comprendere bene la seconda se non partiamo dalla prima. Nell' immaginario legato a questa geografia, la femminilità più compiuta in senso religioso non esiste se non nell' aldilà, in paradiso. Essa esiste precisamente come piacere e godimento: il godimento più appagante e il piacere più completo. Questo spiega l'insistenza dei fondamentalisti nel voler guardare la donna nella vita terrena soltanto come un «recipiente», un «utero», un «ponte» che porta alle ninfe. Le huri esistono in sostanza per accogliere il fedele nell'altro mondo, per essere «letto» di gioia e piacere. È nella loro natura, per maggiore piacere e godimento, tornare vergini dopo ogni accoppiamento, come confermano la maggior parte dei dotti e degli interpreti. Come si fa, allora, a non dire che questa visione religiosa patriarcale-maschilista cancella la donna come essere, come soggetto? Come si fa a non dire che ne fa un'appendice, un'ombra del maschio? Come si fa a non dire che la sua esclusione in vita non è altro che una sorta di «morte» in vista di una vita eterna nell'aldilà, cioè in eterno senza velo? Nell'eternità non ci sarà alcun velo. La ninfa nella vita eterna è assolutamente legittima, il fedele la sceglie a suo piacimento, o è scelta per volontà divina. Ma, nella vita terrena, il velo non sembra un rimando al suo abbandono nella vita eterna, cioè un rimando alla totale libertà? Non sembra una prigione provvisoria, una forma di «timore» in attesa di incontrare la libera femminilità, l'eterna verginità? Sì, sottomettere la donna all'opinione di chi sostiene il velo significa riconoscere consapevolmente la sua schiavitù e arrendersi a tutto ciò che essa comporta.(...) C'è chi sostiene che in Occidente la donna musulmana sceglie liberamente il velo. È un'opinione molto discutibile. Quando vediamo, a Parigi per esempio, delle bambine velate, alcune delle quali non hanno più di quattro anni, ci è forse possibile affermare che abbiano indossato il velo liberamente? Qual è la libertà di una bambina a quell' età? Perché gli immigrati musulmani fondamentalisti vedono nell' apertura dei Paesi ospiti soltanto una possibilità di dichiarare la loro chiusura e il loro isolamento, di migrare all'interno della loro migrazione? Si trovano in questi Paesi grazie a un'apertura. Perciò quando esprimono il loro credo o lo praticano a volte attraverso il velo, a volte con la barba, offendono in primo luogo l'Islam, perché lo riducono a una forma superficiale e lo espongono al mondo come uno slogan o un vessillo e ne fanno un rito formale. È forse così che i musulmani dovrebbero presentare l'Islam in questo secolo, un Islam che è stato per molti secoli simbolo di creatività e irradiazione della civiltà? Non comprendono che con questo comportamento mettono il «velo» all'Islam stesso, gli «coprono il volto», ne danno un' immagine distorta e lo «soffocano»? Invece di rispettare la democrazia e i suoi principi, questa minoranza musulmana in Occidente cerca di rinnegarli, di imporsi con la forza non solo ai musulmani, ma anche alla democrazia. È una posizione che non saprei giustificare o difendere né tantomeno saprei dire come possa giovare all'Islam, esserne la corretta espressione. È una posizione che impone di guardare ai suoi sostenitori non come uomini devoti e religiosi, ma come uomini politici. La moschea è l'unico luogo che distingue un musulmano, svelandone l'identità religiosa in Occidente (la medesima cosa dovrebbe accadere nei Paesi arabi). È l'unico luogo dove esercitare appieno i propri diritti religiosi. Al di fuori di essa l'esercizio sociale o pubblico di tali diritti è un oltraggio ai valori comuni. Le istituzioni, in particolare quelle educative, la scuola, l'università, sono luoghi civici pubblici, collettivi. Luoghi d'incontro. Luoghi aperti a tutti, dove dovrebbero scomparire i diversi simboli religiosi, qualsiasi essi siano. Alle istituzioni si aggiungono le strade, i caffè, i club, i cinema e le sale pubbliche per conferenze e convegni. La comparsa di simboli religiosi distintivi in luoghi come questi è una violazione del loro senso e delle loro finalità. Una violazione della comune appartenenza e della comune identità. Un simbolo di volontà separatista. Rifiuto dell' integrazione. Affermazione di un'identità speciale e diversa all'interno di un'identità pubblica e unificante. E questo costituisce una sfida al sentimento pubblico, al gusto, alla cultura e alla morale pubbliche. Oltretutto, l'affermazione esteriore del privato in pubblico è una forma di spettacolarizzazione indegna della religione. Fondamentale nell'esperienza religiosa è il fatto che sia intima, che sia vissuta in modo semplice, in silenzio e in solitudine, una sorta di ritiro da ogni genere di «apparenza». Se qualcuno obietta che la donna musulmana mette il velo in nome del diritto alla libertà religiosa, bene, questo diritto è preservato e rispettato finché è privato e esercitato nel contesto privato. Quando se ne esce, il diritto diventa violazione, una forma di aggressione nei confronti dell' altro, una mancanza di rispetto per le idee e i sentimenti altrui, oltre che manifestazione di disprezzo per i principi, le leggi civiche e gli sforzi e i grandi sacrifici che le hanno prodotte. Riassumendo, l'interpretazione religiosa che impone il velo alla donna musulmana che vive in un Paese laico dove la religione è separata dalla politica, dove la donna è pari all'uomo per diritti e doveri, rivela una mentalità che non vela soltanto la donna, ma anche l'uomo, la società e la vita. Vela la mente. È un'interpretazione che dà diritto a molti occidentali di considerare l' imposizione del velo un'azione tendente a minare le fondamenta su cui si è basata la lotta dell' Occidente per la libertà, la giustizia e l'eguaglianza. Dà anche diritto di vederci la pretesa di cancellare il ruolo della donna dalla vita pubblica, sociale, culturale e politica, un fatto totalmente in contrasto con i principi della vita civile in Europa e in Occidente. È perciò un'interpretazione che, in ultima analisi, cerca di trasformare l'uomo e la religione insieme in meri strumenti al servizio di una macchina di potere manovrata da una tirannia cieca.
Nato nel 1930 in Siria e residente a Parigi, Alì Ahmad Sai' ïd Esber (vero nome di Adonis) è una della voci più autorevoli della cultura araba. Guanda ha già tradotto i suoi volumi di poesia «Memoria del vento» e «Cento poesie d'amore», e le raccolte di saggi «La preghiera e la spada» e «La musica della balena azzurra»
Il testo pubblicato in questa pagina è una sintesi di due interventi sul velo islamico inclusi nel libro di Adonis «Oceano nero» (Guanda, pp. 190, 14), in uscita giovedì 7 settembre, che raccoglie le riflessioni del poeta siriano su vari temi di attualità. Sabato 2, Adonis interverrà al Festival della Mente di Sarzana
«Corriere della Sera» del 30 agosto 2006
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