15 febbraio 2010

Quel che ci racconta un quadro da solo

La provocazione di Daverio: «Inutile abbuffarci con mille opere che non siamo capaci di capire, quando la contemplazione d’un singolo dipinto apre un mondo intero»
di Philippe D'Averio
In un saggio di mirabile chiarezza sulla New York Revue of Books, Robert Hughes, il più incisivo dei critici americani, purtroppo recentemente scomparso, sosteneva che vi è una grande differenza nel rapporto con l’arte fra i popoli della cultura latina, l’Italia in particolare, e quelli di derivazione germanica e americana. Per questi l’arte è un insegnamento e come tale si può presentare in mostre severe e complesse dalle quali si esce con la testa confusa, i piedi gonfi e la sensazione d’avere compiuto il sacro dovere del miglioramento della coscienza. Per noi latini, italiani in testa, l’arte è un godimento, che può essere affrontato con leggerezza perché l’estetica e l’etica non sono necessariamente categorie collegate.
Dibattito aperto. Sembra darci ragione a Vienna, che è germanica ma pura cattolica, un’iniziativa al Kunsthistorisches, il loro massimo museo, dove si espone (fino al 25 aprile) un’opera sola e cioè quel capolavoro assoluto di Vermeer che è L’arte del dipingere. Dalla contemplazione d’un singolo dipinto si apre un mondo intero. In primis ovviamente quello del modo tecnico di Vermeer, con l’uso del suo blu d’oltremare ottenuto – costosissimo – dalla molatura dei lapislazzuli, con l’attenzione a quella stesura di puntini di materia colorata posati con la precisione del pennellino che consentivano la riproduzione magica delle sue atmosfere di luce, con il sapore di miniatura per case borghesi portata qui alla dimensione per lui enorme d’un metro per un metro e venti.
Perché per lui questo era il quadro campione che faceva vedere ai committenti, realizzato nel 1666 all’età di trentaquattr’anni e quindi mai venduto. E nella composizione stessa, dominata dall’esercizio virtuosistico d’una grande tenda che ne determina il primo piano, si ritrovano i percorsi svelati del suo metodo, dove il disegno non precedeva la composizione (di lui si conoscono pochissimi disegni) che avveniva per copia quasi automatica e pedissequa della realtà, come dimostra l’abbozzo che il pittore sta stendendo sul cavalletto. Si dice che forse usasse la camera oscura, quel dispositivo ottico che permetteva di vedere il mondo come in una macchina fotografica. E poi i dettagli: la carta geografica delle 17 province libere d’Olanda incisa da Claes Jansz e presentata nella mostra per spiegare il dipinto assieme ad alcuni film al medesimo ispirati. E ancora lei, la modella vestita da musa Clio, quella della Storia, con la tromba e il libro, ma che potrebbe essere anche un’allegoria di tutte le arti se si guarda alla scultura posata sul tavolo. E sempre in quell’atmosfera morbida della borghesia tollerante e ricca dei Paesi Bassi, dove lui invece non fu ricco affatto, distrutto e indebitato dalla crisi economica conseguente alla guerra inflitta da Luigi XIV nel 1672. Da questa crisi evolve la storia successiva del dipinto.
Vermeer muore giovane, nel 1675. La sua vedova Caterina Bolnes, quella per la quale s’era probabilmente convertito al cattolicesimo, tenta di vendere per pagare i debiti la casa e le opere rimaste nello studio alla comunità cittadina di Delft; vorrebbe tenere almeno il quadro simbolo, ma si trova costretta dell’esecutore testamentario a vendere anche quello. L’arte del dipingere ricompare cent’anni dopo in Austria. Ormai non si sa più chi ne sia l’autore e viene attribuito a De Hooch nell’eredità che arriva al barone van Swieten nel 1803. Passa alla prestigiosa collezione del conte Czernin e viene identificato come capo d’opera di Vermeer dal Bürger nel 1860. Gli eredi del conte se lo disputano e lo pongono in vendita negli anni ’30 del secolo XX per la cifra colossale di un milione di dollari-oro, che dovrebbe pagare il magnate Andrew Mellon, segretario del Tesoro americano. Ma la legge di protezione delle arti austriache lo impedisce. Siamo nel 1937. L’anno dopo l’Austria viene annessa alla Germania nazista e il terribile Adolfo, l’imbianchino che si dilettava di pittura, lo soffia via per soli 660.000 dollari, pari a 1.600.000 marchi, a Göring, il gerarca criminale di buona famiglia, che aveva offerto 200.000 marchi in più. Era quello il privilegio del Führer, che stava costituendo il suo museo nella città natale di Linz. Il quadro viene salvato nel 1945, nascosto in una miniera di sale, e affidato ai musei di Vienna. Oggi gli eredi del conte reclamano la restituzione per vendita coatta a prezzo vile. Quanti orizzonti può aprire il racconto d’un quadro solo. Ben meglio che passeggiare distratti nelle sale fra centinaia di opere mute.



«Avvenire» del 13 febbraio 2010

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