di Maurizio Cucchi
I grandi autori riescono regolarmente ad alimentarci, a fornirci quasi ad ogni rilettura nuove indicazioni. Ci pensavo leggendo Clemente Rebora nel bel volume, curato da Matteo Giancotti, «Frammenti di un libro sulla guerra» (San Marco dei Giustiniani, pagine 232, s.i.p.). Il poeta milanese, infatti, aveva progettato un’opera mista di versi e prosa, un prosimetro, appunto, su un tema che gli aveva sconvolto esistenza ed equilibro e sul quale ha scritto alcune delle poesie più importanti del Novecento. Il progetto non andò mai compiutamente in porto, ma ce ne restano documenti importanti, alcuni anche tra i più noti della sua opera, basti pensare a poesie come «Viatico» o come «Voce di vedetta morta», la cui asciutta violenza, la cui verità atroce non cessa di colpirci ogni volta che abbiamo occasione di rileggerle. D’altra parte si tratta anche di documenti che indirettamente ci portano più vicini all’intimo sconvolgimento subito da Rebora, che aveva dovuto subire verso il Natale del ’15 un gravissimo choc a causa dell’esplosione di un obice ai margini della trincea. Come ricorda Giancotti, «Rebora rimase sepolto sotto la frana provocata dallo scoppio» e ne ebbe un trauma cranico. Le conseguenza furono tremende per il suo equilibrio psichico, tanto che dovette essere ricoverato per «disturbi mentali», sottoposto alla «cura elettrica», poi internato nel manicomio di Reggio Emilia fino all’inizio del 1918. La «demenza» della guerra, di cui parla nella sua opera, era dunque arrivata più direttamente a colpirlo. Rileggendo le pagine di questo «libro fantasma» (in quanto il suo progetto complessivo fu poi presto abbandonato), vengono spontanee alcune considerazioni.
In primo luogo si avverte a tutti i livelli una tremenda inquietudine di fondo, una tempesta d’anima comune a molti autori di quell’epoca, che poteva anche coincidere con quello che il curatore del volume chiama l’ «interventismo metafisico reboriano». Quel suo «stato d’animo febbricitante» portava in sé qualcosa di misteriosamente proiettato nel vortice d’orrore distruttivo del conflitto, pur se Rebora vede anche in modo satirico e caricaturale la retorica del patriottismo interventista. Ma pur nelle violente accensioni del suo spirito – che verranno poi riconvertite in fede, dando una soluzione alla sua dirompente «mania d’eterno» – Rebora riesce a mostrare – come dev’essere nel grande autore – un’attenzione sensibilissima ai risvolti anche minimi e quotidiani della condizione in cui si trova. Proprio per questo sa dare ulteriore forza concreta e di immagini alla sua parola. Sul piano del linguaggio e dello stile vengono poi altre notevoli indicazioni. In primo luogo la prosa di Rebora appare qui vistosamente increspata, ansiosa e sperimentale, molto lavorata e in continua torsione, coerentissima rispetto alla sua poesia, di cui costituisce il perfetto rovescio espressivo. Nella tensione evidente della sua scrittura, Rebora si mostra in sintonia con l’epoca e le sue inquietudini anche espressive, e di quel tempo è uno degli interpreti più originali e potenti. L’ultima indicazione che ci offre (anche se l’idea del prosimetro sulla guerra fu abbandonata) è quella della possibilità di costruzione di un libro in cui la parola poetica potesse concretamente realizzarsi sia in prosa che in verso. La coesistenza di prosa e poesia in un unico organismo, infatti, pure a distanza di quasi cent’anni, costituisce un’ipotesi ancora attualissima, sebbene molto raramente praticata.
In primo luogo si avverte a tutti i livelli una tremenda inquietudine di fondo, una tempesta d’anima comune a molti autori di quell’epoca, che poteva anche coincidere con quello che il curatore del volume chiama l’ «interventismo metafisico reboriano». Quel suo «stato d’animo febbricitante» portava in sé qualcosa di misteriosamente proiettato nel vortice d’orrore distruttivo del conflitto, pur se Rebora vede anche in modo satirico e caricaturale la retorica del patriottismo interventista. Ma pur nelle violente accensioni del suo spirito – che verranno poi riconvertite in fede, dando una soluzione alla sua dirompente «mania d’eterno» – Rebora riesce a mostrare – come dev’essere nel grande autore – un’attenzione sensibilissima ai risvolti anche minimi e quotidiani della condizione in cui si trova. Proprio per questo sa dare ulteriore forza concreta e di immagini alla sua parola. Sul piano del linguaggio e dello stile vengono poi altre notevoli indicazioni. In primo luogo la prosa di Rebora appare qui vistosamente increspata, ansiosa e sperimentale, molto lavorata e in continua torsione, coerentissima rispetto alla sua poesia, di cui costituisce il perfetto rovescio espressivo. Nella tensione evidente della sua scrittura, Rebora si mostra in sintonia con l’epoca e le sue inquietudini anche espressive, e di quel tempo è uno degli interpreti più originali e potenti. L’ultima indicazione che ci offre (anche se l’idea del prosimetro sulla guerra fu abbandonata) è quella della possibilità di costruzione di un libro in cui la parola poetica potesse concretamente realizzarsi sia in prosa che in verso. La coesistenza di prosa e poesia in un unico organismo, infatti, pure a distanza di quasi cent’anni, costituisce un’ipotesi ancora attualissima, sebbene molto raramente praticata.
«Avvenire» del 25 febbraio 2010
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