La condanna di Google
di Marco Bardazzi
Quando nel 2004 Google presentò i documenti per essere quotata in Borsa a New York, la loro lettura fece sollevare sopracciglia perplesse a Wall Street. Una società che già aveva come motto «non fare del male» si presentava indicando come scopo aziendale «fare cose buone per il mondo». Ora che su Google piovono guai da varie parti - la condanna italiana è solo l'ultimo - è il momento per chiedere alla multinazionale se la «mission» non sia stata tradita. O se non fosse ingenua fin dall’inizio. Proviamo ad allargare lo sguardo oltre l’Italia e le censure in Cina e chiediamoci: Google fa solo «cose buone per il mondo»? Vediamo:
- l'antitrust europeo ha aperto un'indagine per presunte pratiche anticoncorrenziali;
- inchieste giornalistiche hanno sollevato interrogativi sulle pratiche fiscali di un gruppo che vorrebbe agire nel mondo rifacendosi solo alle norme della California;
- gli editori di libri sono allarmati dalla rapidità con cui Google «scannerizza» intere biblioteche (e il copyright?);
- i media si sentono defraudati di contenuti prodotti con costi rilevanti e diffusi gratis su Google News;
- dal mondo discografico a quello della pubblicità, passando per cinema e telefonia, interi settori risentono del «metodo Google»;
- chi accusava Microsoft di essere monopolista ora scopre preoccupato che Google ha messo in piedi a Washington una struttura di lobbying che Bill Gates poteva solo sognarsi. Il team è composto da ex membri del Congresso e del governo, e rafforzato dal fatto che il Ceo Eric Schmidt è di casa nello Studio Ovale di Barack Obama;
- nel mondo accademico aumentano gli allarmi sull’effetto di Google su cultura e metodi di apprendimento. Li ha riassunti un celebre saggio di Nicholas Carr: «Google ci rende più stupidi?».
Intendiamoci, Google resta l'espressione più compiuta delle potenzialità del web. Gran parte di ciò che fa è innegabilmente «buono» e utile per tutti. Ma anche nel Googleplex di Mountain View può essere l’ora di un esame di coscienza. Perché nella storia non mancano esempi di chi, promettendo di fare «cose buone per il mondo», ha ottenuto l'effetto contrario.
- l'antitrust europeo ha aperto un'indagine per presunte pratiche anticoncorrenziali;
- inchieste giornalistiche hanno sollevato interrogativi sulle pratiche fiscali di un gruppo che vorrebbe agire nel mondo rifacendosi solo alle norme della California;
- gli editori di libri sono allarmati dalla rapidità con cui Google «scannerizza» intere biblioteche (e il copyright?);
- i media si sentono defraudati di contenuti prodotti con costi rilevanti e diffusi gratis su Google News;
- dal mondo discografico a quello della pubblicità, passando per cinema e telefonia, interi settori risentono del «metodo Google»;
- chi accusava Microsoft di essere monopolista ora scopre preoccupato che Google ha messo in piedi a Washington una struttura di lobbying che Bill Gates poteva solo sognarsi. Il team è composto da ex membri del Congresso e del governo, e rafforzato dal fatto che il Ceo Eric Schmidt è di casa nello Studio Ovale di Barack Obama;
- nel mondo accademico aumentano gli allarmi sull’effetto di Google su cultura e metodi di apprendimento. Li ha riassunti un celebre saggio di Nicholas Carr: «Google ci rende più stupidi?».
Intendiamoci, Google resta l'espressione più compiuta delle potenzialità del web. Gran parte di ciò che fa è innegabilmente «buono» e utile per tutti. Ma anche nel Googleplex di Mountain View può essere l’ora di un esame di coscienza. Perché nella storia non mancano esempi di chi, promettendo di fare «cose buone per il mondo», ha ottenuto l'effetto contrario.
«La Stampa» del 25 febbraio 2010
Nessun commento:
Posta un commento