11 febbraio 2010

L’evoluzione creatrice nelle mani dell’uomo

di Andrea Vaccaro
C’è una nuova figura concettuale che si aggira in Occidente e guadagna ogni giorno proseliti, sia in ambito teorico che applicativo: l’idea che l’umanità sia ormai pronta ad assumere la guida dell’evoluzione. L’evoluzione finora - secondo tale figura - è stata un puledro allo stato brado, libero di scorrazzare o fermarsi nelle vaste praterie delle possibilità naturali a suo piacimento. Oggi, però, è nel recinto di un rodeo, dove novelli cow-boy in camice stanno prendendo le misure per domarlo, prima di essere disarcionati. Entro breve - già si sa - il puledro, sfiancato, obbedirà docile alla volontà dei cavalieri. Perseverando nella metafora, le briglia che dirigono il morso nella bocca del cavallo corrispondono alla genetica e all’informatica.
E, così, «saremo la prima specie a controllare la propria evoluzione» dichiara convinto Richard Satava, programmatore manager del Defense Sciences Office (Dso) statunitense. «La prossima frontiera siamo noi», gli fa eco Gregory Stock, direttore del Programma di medicina, tecnologia e società dell’Università della California e autore di Riprogettare gli esseri umani. Dal terrazzo di questi autori si vede solo la forza cieca e bruta della Natura darwiniana come motore della storia, ed allora il cambio di guida è anche un dovere etico, perché essa, «con la scusa di aiutarci, ci massacra alla prima opportunità» (David Orban del Singularity Institute Europe). «Stiamo però avvicinando il tempo in cui non sarà più così», assicura il filosofo Nick Bostrom.
«Salviamo i veicoli dai loro pessimi guidatori!», ovvero dalle insensate spinte darwiniane, incita David Pearce nel suo Imperativo edonistico, e prosegue: «l’agenda post-darwiniana è ambiziosa e incredibile, ma tecnicamente realizzabile».
Con maggior pacatezza, Chip Walter, in Pollici, alluci, lacrime e altri tratti che ci rendono umani, distende la convinzione e lo stato dell’arte: «La nostra situazione non è simile ad alcunché la natura abbia visto finora, perché non siamo più solo un prodotto dell’evoluzione: ora siamo anche agenti dell’evoluzione di noi stessi, cioè capaci di guidarla».
È pressoché un luogo comune che a tali autori, parlando in pubblico, piaccia concludere l’intervento «mettendosi nei panni dei cristiani». Pur dichiarando la loro irreligiosità o una certa indifferenza nei confronti di tale problematica, essi rilevano che un cristiano dovrebbe accogliere positivamente la novità presentata in quanto, «dal suo punto di vista», il dominio su tutto ciò che è in natura e lo stesso potere creativo dell’uomo fatto a immagine del Creatore sono in linea con gli assunti biblici fondamentali. Il suggerimento è da accettare con gratitudine, perché, in effetti, i cristiani non si sognano neppure di interpretare le mirabili conquiste dell’umanità come un oltraggio a Dio, piuttosto come tasselli aggiunti al suo disegno eterno. Sarebbe utile, tuttavia, che i suddetti autori non facessero sempre lo 'sforzo' di immedesimarsi con i cristiani e talvolta, per così dire, 'rimanessero nei loro panni' e tentassero di spiegare, ragionevolmente, con parole loro - senza ricorrere a categorie cristiane ­il senso di questa ascesa cosmica che dalla materia primordiale passa per l’uomo e si protende incessantemente verso orizzonti di sempre più alta spiritualità. È questa domanda sul senso che, nelle multiformi presentazioni degli spettacolari scenari futuri, rimane costantemente sospesa. Eppure, dalla risposta potrebbero sorgere importanti indicazioni affinché l’uomo possa interpretare al meglio il nuovo ruolo prospettato.
«Avvenire» dell'11 febbraio 2010

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