di Davide Rondoni
Ci sono mancanze che non sono solo mancanza. Ma anche crescita, prodigiosa e strana, di una presenza. Un vuoto colmo, un’ombra che suggerisce. Un attore che è temporaneamente dietro le quinte ma occupa ancora la scena. Accade così per i padri, e per i veri pochi maestri. Per i veri autori, coloro che aumentano (augeo) la vita che hai avuto e hai. Mario Luzi ci manca da cinque anni. E ci cresce dentro e intorno. Con lui il mio rapporto fu serio e lungo, discussivo e allegro. Molti non si sarebbero arrischiati lungo i sentieri umili e alti della poesia, se non avessero avuto Mario davanti, di fianco.
Con altri poeti lo «inseguiremo» a Firenze, stasera, leggendo alla biblioteca delle Oblate, e domani con una messa a San Miniato al Monte. E domani pomeriggio a Bologna, alla Fondazione Identes, leggendo.
Sì, lo inseguiremo, come una lepre nel folto, che ci invita e sfugge. Ci manca e ci chiama, Luzi. Una presenza moltiplicata.
Una giovane brava poetessa, Sara Tardino, mi diceva qualche giorno fa che quando uscì il suo primo libro, aprendo il pacchetto che veniva dall’editore, il suo pensiero fu: e adesso che non c’è più Luzi a chi lo mando? Tale era la capacità di ascolto di Luzi rispetto alle voci meno banali che venivano dai più giovani. Non si trattava solo di generosità. C’era una capacità di ascolto nella persona di Luzi che corrisponde a quella che esiste nella sua opera: ascolto del mondo, del farsi del vivente, del misterioso evento. Un atteggiamento positivo di ascolto, mai ritirato nel cinismo tipico dell’intellettuale attempato, o del saggio inasprito. Un uomo non risentito, una rarità. Una stella. E ovunque vado, in questo inquieto circo e girovagare che taluni poeti fanno per ogni borgo d’Italia, trovo tracce del suo passaggio, del suo mite insegnamento, della sua amicizia. Luzi continua a essere una lama piantata nella cultura italiana. In quella ufficiale, che pur lo celebrò anche ipocritamente negli estremi suoi giorni, facendone icona per motivi politici dopo che lo avevano occultato sistematicamente per anni. (E tu Toscana, sua dolce e dura toscana, trova il modo di onorarlo e indicarlo. Almeno a Roma è nato un bel premio di poesia. Ma a Firenze?). Luzi è una lama che ha tagliato i pregiudizi e le sentenze di «morte» celebrate più volte sulla di lui poesia da intellettuali arroganti di ideologia. Una lama come una inquietudine in ogni pensiero pacificato, in ogni pensiero senza più domande. In ogni fede senza sospiro di conoscenza, e in ogni socialità sclerotizzata e crassa. Ora col tempo, e con la sorpresa di talune sue postume prove, si verifica come la sua lingua permanga e cresca. Il lavoro infinito che ha fatto sull’antico e sul contemporaneo della poesia e della nostra lingua fa parte del nostro tesoro. Luzi ha perseguito la naturalezza della poesia, l’emergere della voce umana come rilievo all’avvenimento della vita. Ha scrutato nei grandi del passato e nei giovani che venivano dopo di lui questo tesoro umile e grandioso. Tesoro che saremmo disgraziati a dissipare. Che saremmo codardi a non offrire. Dopo cinque anni, la forza della sua presenza continua a lavorare e ad essere irriducibile a pochi tratti fissati, partecipando al misterioso evolversi. «Cantami qualcosa pari alla vita», ha scritto. E ha fatto. Per questo dopo cinque anni non celebriamo la memoria della sua morte, ma ancora ne inseguiamo la presenza nel folto degli anni e delle voci.
Con altri poeti lo «inseguiremo» a Firenze, stasera, leggendo alla biblioteca delle Oblate, e domani con una messa a San Miniato al Monte. E domani pomeriggio a Bologna, alla Fondazione Identes, leggendo.
Sì, lo inseguiremo, come una lepre nel folto, che ci invita e sfugge. Ci manca e ci chiama, Luzi. Una presenza moltiplicata.
Una giovane brava poetessa, Sara Tardino, mi diceva qualche giorno fa che quando uscì il suo primo libro, aprendo il pacchetto che veniva dall’editore, il suo pensiero fu: e adesso che non c’è più Luzi a chi lo mando? Tale era la capacità di ascolto di Luzi rispetto alle voci meno banali che venivano dai più giovani. Non si trattava solo di generosità. C’era una capacità di ascolto nella persona di Luzi che corrisponde a quella che esiste nella sua opera: ascolto del mondo, del farsi del vivente, del misterioso evento. Un atteggiamento positivo di ascolto, mai ritirato nel cinismo tipico dell’intellettuale attempato, o del saggio inasprito. Un uomo non risentito, una rarità. Una stella. E ovunque vado, in questo inquieto circo e girovagare che taluni poeti fanno per ogni borgo d’Italia, trovo tracce del suo passaggio, del suo mite insegnamento, della sua amicizia. Luzi continua a essere una lama piantata nella cultura italiana. In quella ufficiale, che pur lo celebrò anche ipocritamente negli estremi suoi giorni, facendone icona per motivi politici dopo che lo avevano occultato sistematicamente per anni. (E tu Toscana, sua dolce e dura toscana, trova il modo di onorarlo e indicarlo. Almeno a Roma è nato un bel premio di poesia. Ma a Firenze?). Luzi è una lama che ha tagliato i pregiudizi e le sentenze di «morte» celebrate più volte sulla di lui poesia da intellettuali arroganti di ideologia. Una lama come una inquietudine in ogni pensiero pacificato, in ogni pensiero senza più domande. In ogni fede senza sospiro di conoscenza, e in ogni socialità sclerotizzata e crassa. Ora col tempo, e con la sorpresa di talune sue postume prove, si verifica come la sua lingua permanga e cresca. Il lavoro infinito che ha fatto sull’antico e sul contemporaneo della poesia e della nostra lingua fa parte del nostro tesoro. Luzi ha perseguito la naturalezza della poesia, l’emergere della voce umana come rilievo all’avvenimento della vita. Ha scrutato nei grandi del passato e nei giovani che venivano dopo di lui questo tesoro umile e grandioso. Tesoro che saremmo disgraziati a dissipare. Che saremmo codardi a non offrire. Dopo cinque anni, la forza della sua presenza continua a lavorare e ad essere irriducibile a pochi tratti fissati, partecipando al misterioso evolversi. «Cantami qualcosa pari alla vita», ha scritto. E ha fatto. Per questo dopo cinque anni non celebriamo la memoria della sua morte, ma ancora ne inseguiamo la presenza nel folto degli anni e delle voci.
«Avvenire» del 27 febbraio 2010
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