L’uomo non è solo un fatto di natura. La sua verità sta nella sua dignità inviolabile, oltre ogni riduzionismo scientifico. A proposito dell’enciclica «Caritas in veritate» di Benedetto XVI
di Camillo Ruini
La globalizzazione chiama le nazioni di matrice cristiana a preservare e a far fruttificare in pienezza la centralità dell’uomo, valore nato nelle culture d’Europa e d’America, contrassegnate dal Vangelo
Tornano gli «Incontri in Cattedrale» organizzati dal Vicariato di Roma. Ieri sera nella Basilica di San Giovanni in Laterano si è tenuta la prima conferenza del nuovo ciclo, dedicato all’ultima enciclica di Benedetto XVI, la «Caritas in veritate». La riflessione, sui fondamenti antropologici del documento, è stata tenuta dal cardinale Camillo Ruini (di cui qui pubblichiamo la parte finale), che quando era vicario della Capitale aveva voluto questa «iniziativa culturale offerta alla città». Lo ha ricordato il cardinale Agostino Vallini, sostituto di Ruini nella diocesi di Roma, nel saluto introduttivo della serata. Con la «Caritas in veritate» ha spiegato Vallini«il Papa ha offerto alla Chiesa e a tutti gli uomini di buona volontà una riflessione di grande impegno argomentativo sullo sviluppo umano, un documento organico di analisi e di progetto per un mondo nuovo; potremmo dire: un manuale etico per l’economia, e anche una guida alla politica, intesa in senso alto». Secondo Vallini è necessario soffermarsi «sui fondamenti antropologici dello sviluppo umano integrale. È un tema necessario per comprendere l’impianto del documento». Nel senso che, ha proseguito Vallini, per il Papa «nessuna questione che interessa l’uomo può prescindere dal rinvio ai fondamenti. Cioè non è possibile parlare di 'sviluppo' cui non sia sottesa una visione antropologica ed etica». Vallini ha ricordato come la diocesi di Roma «deve molto» a Ruini, «che ha donato senza risparmio le sue energie di mente e di cuore per 17 anni come Vicario del Santo Padre». Così come gli «deve molto» anche la Chiesa italiana, che in lui «ha trovato una guida intelligente e lungimirante». Gli «Incontri in Cattedrale» proseguono il 22 febbraio e l’8 marzo, rispettiavmente con l’economista Mario Monti e il «collega» Stefano Zamagni. (G. Card.)
L’enciclica Caritas in veritate costituisce un grande appello anzitutto ai credenti in Cristo, ma anche a tutti coloro che condividono la centralità della persona umana e l’assoluta non riducibilità del suo essere e del suo valore a tutto il resto della natura. Un appello che ha alla base, insieme alla centralità del soggetto umano e alla sua dignità inviolabile, il legame inscindibile tra carità e verità, con la conseguenza che un cristianesimo di carità senza verità diventa fatalmente marginale nel divenire concreto della storia.
Il contenuto di questo appello è orientare a favore dell’uomo la nuova fase che si sta aprendo per il fatto che l’uomo sta diventando capace di modificare fisicamente se stesso: è questo infatti il cuore della nuova «questione antropologica».
Vi sono almeno due condizioni essenziali perché un tale appello possa essere accolto e avere una reale efficacia storica. La prima di esse ha a che fare con il processo di globalizzazione e con i mutamenti in corso nei grandi equilibri geo-economici e geopolitici, ma anche e inevitabilmente geoculturali. Di fatto, oggi stanno riemergendo e assumendo un peso sempre maggiore alcune grandi nazioni e civiltà che negli ultimi secoli erano state sovrastate dall’Occidente. Queste nazioni e civiltà non hanno quella matrice cristiana che, malgrado tutte le infedeltà storiche, oggi, malgrado i processi di secolarizzazione, appartiene al Dna dell’Europa, delle due Americhe e di altre considerevoli parti del mondo. La centralità della persona umana si è però affermata storicamente proprio in quelle culture che hanno la loro matrice nel cristianesimo. Sono dunque i popoli eredi di tali culture quelli che per primi hanno la responsabilità e il compito di mantenere e far fruttificare la centralità dell’uomo nella nuova fase storica che si apre davanti a noi, pur cercando, come è doveroso e necessario, di sollecitare anche le altre nazioni e civiltà ad un impegno convergente.
In particolare l’Italia ha a questo fine un ruolo peculiare tra le stesse nazioni europee, ruolo fortemente sottolineato da Giovanni Paolo II, ad esempio nella Lettera ai vescovi italiani del 6 gennaio 1994, dove scriveva: «All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo». Con uguale vigore Benedetto XVI, nel discorso alla Chiesa italiana tenuto a Verona il 19 ottobre 2006, sottolineava che, attraverso un atteggiamento dinamico e non rinunciatario, «la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa nazione, ma anche all’Europa e al mondo, perché è presente ovunque l’insidia del secolarismo e altrettanto universale è la necessità di una fede vissuta in rapporto alle sfide del nostro tempo». Di questo compito e servizio noi italiani dobbiamo essere assai più convinti e consapevoli.
La seconda condizione per accogliere sul serio l’appello contenuto nella Caritas in veritate riguarda ognuno di noi, all’interno della situazione che ciascuno si trova a vivere.
Siamo infatti tutti corresponsabili perché la centralità del soggetto umano assuma un rilievo forte e concreto, capace di incidere sul crescente potere che l’umanità sta acquistando di modificare fisicamente se stessa, per orientare questo potere a favore dell’uomo, considerato in ogni singola persona e in ogni fase della vita sempre come fine e mai come mezzo. In pratica, responsabilità e impegno sono richiesti agli scienziati, ai medici e agli altri operatori sanitari ma ugualmente agli uomini della cultura e della comunicazione sociale, anzi, ad ogni persona che pensa e agisce, perché la cultura reale di un popolo è fatta dalle convinzioni e dalle scelte che tutti compiono ogni giorno. Grandi sono, inoltre, le responsabilità dei politici, legislatori e amministratori, ma di nuovo, in un Paese democratico, anche di ogni cittadino chiamato a compiere le proprie scelte politiche. E ancora molto dipende da chi può guidare o condizionare gli enormi interessi economici che spesso stanno dietro al lavoro degli scienziati e dei tecnici: anche qui le scelte quotidiane delle persone e delle famiglie hanno però, in concreto, un peso non trascurabile. Finalmente, una specifica responsabilità riguarda noi sacerdoti e vescovi, i religiosi e le religiose, ciascun credente che intende essere testimone e missionario della fede nel Dio amico dell’uomo. Pertanto, come ha scritto il filosofo francese Jean-Michel Besnier in un’intervista rilasciata ad Avvenire il 1° ottobre 2009, «è necessaria una massiccia presa di coscienza da parte della popolazione. Il fascino per le tecniche è il rovescio della medaglia di una disistima di sé e dell’umanità. Non si sopportano più la vecchiaia, la malattia e la morte, e tantomeno la casualità della nascita. Riconciliarci con la nostra finitudine, accettare le nostre debolezze… è il prerequisito per salvare l’umanità».
Il contenuto di questo appello è orientare a favore dell’uomo la nuova fase che si sta aprendo per il fatto che l’uomo sta diventando capace di modificare fisicamente se stesso: è questo infatti il cuore della nuova «questione antropologica».
Vi sono almeno due condizioni essenziali perché un tale appello possa essere accolto e avere una reale efficacia storica. La prima di esse ha a che fare con il processo di globalizzazione e con i mutamenti in corso nei grandi equilibri geo-economici e geopolitici, ma anche e inevitabilmente geoculturali. Di fatto, oggi stanno riemergendo e assumendo un peso sempre maggiore alcune grandi nazioni e civiltà che negli ultimi secoli erano state sovrastate dall’Occidente. Queste nazioni e civiltà non hanno quella matrice cristiana che, malgrado tutte le infedeltà storiche, oggi, malgrado i processi di secolarizzazione, appartiene al Dna dell’Europa, delle due Americhe e di altre considerevoli parti del mondo. La centralità della persona umana si è però affermata storicamente proprio in quelle culture che hanno la loro matrice nel cristianesimo. Sono dunque i popoli eredi di tali culture quelli che per primi hanno la responsabilità e il compito di mantenere e far fruttificare la centralità dell’uomo nella nuova fase storica che si apre davanti a noi, pur cercando, come è doveroso e necessario, di sollecitare anche le altre nazioni e civiltà ad un impegno convergente.
In particolare l’Italia ha a questo fine un ruolo peculiare tra le stesse nazioni europee, ruolo fortemente sottolineato da Giovanni Paolo II, ad esempio nella Lettera ai vescovi italiani del 6 gennaio 1994, dove scriveva: «All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo». Con uguale vigore Benedetto XVI, nel discorso alla Chiesa italiana tenuto a Verona il 19 ottobre 2006, sottolineava che, attraverso un atteggiamento dinamico e non rinunciatario, «la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa nazione, ma anche all’Europa e al mondo, perché è presente ovunque l’insidia del secolarismo e altrettanto universale è la necessità di una fede vissuta in rapporto alle sfide del nostro tempo». Di questo compito e servizio noi italiani dobbiamo essere assai più convinti e consapevoli.
La seconda condizione per accogliere sul serio l’appello contenuto nella Caritas in veritate riguarda ognuno di noi, all’interno della situazione che ciascuno si trova a vivere.
Siamo infatti tutti corresponsabili perché la centralità del soggetto umano assuma un rilievo forte e concreto, capace di incidere sul crescente potere che l’umanità sta acquistando di modificare fisicamente se stessa, per orientare questo potere a favore dell’uomo, considerato in ogni singola persona e in ogni fase della vita sempre come fine e mai come mezzo. In pratica, responsabilità e impegno sono richiesti agli scienziati, ai medici e agli altri operatori sanitari ma ugualmente agli uomini della cultura e della comunicazione sociale, anzi, ad ogni persona che pensa e agisce, perché la cultura reale di un popolo è fatta dalle convinzioni e dalle scelte che tutti compiono ogni giorno. Grandi sono, inoltre, le responsabilità dei politici, legislatori e amministratori, ma di nuovo, in un Paese democratico, anche di ogni cittadino chiamato a compiere le proprie scelte politiche. E ancora molto dipende da chi può guidare o condizionare gli enormi interessi economici che spesso stanno dietro al lavoro degli scienziati e dei tecnici: anche qui le scelte quotidiane delle persone e delle famiglie hanno però, in concreto, un peso non trascurabile. Finalmente, una specifica responsabilità riguarda noi sacerdoti e vescovi, i religiosi e le religiose, ciascun credente che intende essere testimone e missionario della fede nel Dio amico dell’uomo. Pertanto, come ha scritto il filosofo francese Jean-Michel Besnier in un’intervista rilasciata ad Avvenire il 1° ottobre 2009, «è necessaria una massiccia presa di coscienza da parte della popolazione. Il fascino per le tecniche è il rovescio della medaglia di una disistima di sé e dell’umanità. Non si sopportano più la vecchiaia, la malattia e la morte, e tantomeno la casualità della nascita. Riconciliarci con la nostra finitudine, accettare le nostre debolezze… è il prerequisito per salvare l’umanità».
«Avvenire» del 9 febbraio 2010
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