Eluana Englaro, le presunte libertà, la dignità della persona
di Benedetto Ippolito
A più di un anno dalla morte di Eluana Englaro sarebbe giusto si aprisse una discussione pacata sul tema della vita umana. Soprattutto perché la conclusione del dibattito appare ancora una prospettiva lontana. Tantissime cose sono già state dette sul fine vita nei giorni scorsi, relativamente alle ragioni degli uni e degli altri, polarizzate attorno al binomio pro e contro la vita e la libertà. Vi sono state, però, due affermazioni del signor Englaro, argomentate con grande partecipazione nei giorni scorsi in un articolo apparso su un quotidiano, veramente allarmanti. Si tratta, invero, di altrettanti attentati al buon senso, prima ancora di essere attacchi violenti al significato profondo dei valori costitutivi della persona umana come tale. La prima affermazione è questa: «Non credo che la medicina giusta sia quella che offra una vita senza limiti». Ossia, coloro che non pensano che l’autodeterminazione, sacrosanta in sé, possa valere in assoluto nello stabilire legalmente una scelta di morte sosterrebbero, secondo lui, l’idea bizzarra di un prolungamento infinito della vita personale.
Ma quando mai! Non è per niente vero che l’immortalità sia la prospettiva ultima caldeggiata dai sostenitori della vita. Viceversa, sembra piuttosto che ad ambire a qualche onnipotenza umana siano coloro che vogliono ergere la libertà a giudice ultimo della vita personale, magari lasciando scritto astrattamente su un pezzo di carta presso un notaio fin quando vivere e quando morire, o lasciando questo onere ai familiari. La vita personale è ingiustamente concepita senza limiti quando si attribuisce alla libertà il potere malefico di creare un termine prefissato all’esistenza, sulla base di una presunta indegnità. Ma davvero qualcuno pensa che ci siano medici che concepiscono la vita come infinita? Vi è una seconda affermazione nell’articolo, la quale, oltretutto, è errata perfino concettualmente. Englaro dice di voler «mettere in guardia il legislatore da autoritarismi da Stato etico». Mi chiedo se il termine «autoritario» sia compreso nel suo significato. L’autorità, infatti, è espressione massima della libertà legittima di qualcuno. La legge sul fine vita, per contro, istituirebbe un vincolo alla libertà affermando, insieme al rispetto supremo per la vita personale, un limite proprio all’autoritarismo.
Decidendo che non si può privare una persona della nutrizione e dell’idratazione si dice in termini esatti che nessuno ha la possibilità di esprimere un potere umano che travalichi la vita personale. In fin dei conti, l’esatto opposto dell’autoritarismo. O piuttosto, la legge imporrebbe che, fermo restando il valore dialogico della terapia che coinvolge paziente, medici e familiari, esiste una soglia non oltrepassabile di sussistenza umana che deve essere lasciata aperta al corso naturale delle cose, senza alcun accanimento né verso la vita, né verso la morte. Una conclusione quindi è certa, dopotutto: tutelare la vita è l’unico modo sicuro per proteggere eticamente la persona umana e la sua permanente dignità dall’onnipotente e autoritario arbitrio della libertà.
Ma quando mai! Non è per niente vero che l’immortalità sia la prospettiva ultima caldeggiata dai sostenitori della vita. Viceversa, sembra piuttosto che ad ambire a qualche onnipotenza umana siano coloro che vogliono ergere la libertà a giudice ultimo della vita personale, magari lasciando scritto astrattamente su un pezzo di carta presso un notaio fin quando vivere e quando morire, o lasciando questo onere ai familiari. La vita personale è ingiustamente concepita senza limiti quando si attribuisce alla libertà il potere malefico di creare un termine prefissato all’esistenza, sulla base di una presunta indegnità. Ma davvero qualcuno pensa che ci siano medici che concepiscono la vita come infinita? Vi è una seconda affermazione nell’articolo, la quale, oltretutto, è errata perfino concettualmente. Englaro dice di voler «mettere in guardia il legislatore da autoritarismi da Stato etico». Mi chiedo se il termine «autoritario» sia compreso nel suo significato. L’autorità, infatti, è espressione massima della libertà legittima di qualcuno. La legge sul fine vita, per contro, istituirebbe un vincolo alla libertà affermando, insieme al rispetto supremo per la vita personale, un limite proprio all’autoritarismo.
Decidendo che non si può privare una persona della nutrizione e dell’idratazione si dice in termini esatti che nessuno ha la possibilità di esprimere un potere umano che travalichi la vita personale. In fin dei conti, l’esatto opposto dell’autoritarismo. O piuttosto, la legge imporrebbe che, fermo restando il valore dialogico della terapia che coinvolge paziente, medici e familiari, esiste una soglia non oltrepassabile di sussistenza umana che deve essere lasciata aperta al corso naturale delle cose, senza alcun accanimento né verso la vita, né verso la morte. Una conclusione quindi è certa, dopotutto: tutelare la vita è l’unico modo sicuro per proteggere eticamente la persona umana e la sua permanente dignità dall’onnipotente e autoritario arbitrio della libertà.
«Avvenire» del 19 febbraio 2010
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