L'Aspen Institute al «Corriere» sul futuro dell' Italia in vista del centocinquantesimo
di Dario Fertilio
I valori del Paese minacciati dalla generazione web. E dagli odi di parte Paradossi Il passaporto italiano è considerato uno dei migliori biglietti da visita del mondo, ma la credibilità nazionale è scarsa
Un grande passato dietro le spalle, un presente rissoso, un futuro incerto. Fotografata così, come è emersa dalla tavola rotonda dell'Aspen Institute Italia, la questione dell'identità culturale italiana, e delle sue radici, non si presenta molto incoraggiante. Ma non avrebbe senso ricorrere a perifrasi, dal momento che il moderatore del dibattito, Giulio Tremonti, in qualità di presidente dell'Aspen e ministro dell'Economia, ieri ha evitato qualsiasi ottimismo istituzionale. E, quando si è trovato a definire il concetto di Stato-nazione, ha ammesso che due suoi pilastri, l'esercito e la triade Dio-Stato-Famiglia, hanno subito ormai una trasformazione talmente profonda da lasciarci senza punti di riferimento rispetto al passato. Che fare, allora, in vista delle celebrazioni per i 150 anni dell' Unità d' Italia? Rafforzare le radici, in modo da rinverdire il vecchio tronco e renderlo riconoscibile anche al di fuori dei nostri confini? Oppure concentrarsi sul presente, cioè sul popolo di internet che sarà il portabandiera di domani? E siamo poi sicuri che il termine "nazionale" sia ancora attuale, in un' epoca di grandi aggregazioni come quella dell'Unione Europea, e mentre chi ha meno di trent' anni corre ormai quasi esclusivamente sulle autostrade virtuali, dove non si parla italiano e l'appartenenza nazionale è un requisito trascurabile? La prima sensazione, in chi ha partecipato alla tavola rotonda dell'Aspen, è probabilmente un' incertezza per eccesso d'abbondanza. Siamo il Paese, si dice, con il più grande patrimonio artistico globale ma - come ha rilevato l'economista Alberto Quadrio Curzio - viviamo all'interno di un paradosso: il passaporto italiano è considerato uno dei migliori biglietti da visita del mondo, mentre la credibilità nazionale è scarsa. Peggio, più ancora che alla memoria divisa la nostra inclinazione prevalente è alla rissa eterna, quando non ci abbandoniamo all' odio reciproco, al nichilismo, al gusto per l'autodenigrazione (in questo senso si sono ritrovati sulla stessa lunghezza d' onda sia il ministro Sandro Bondi che il giurista Guido Rossi, citando rispettivamente a testimoni gli scrittori Carlo Sgorlon e Giacomo Leopardi). Ma anche Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro di Milano, denunciando una forte omologazione del pensiero intellettuale, al limite della «autocastrazione». Siamo ricchi di un grande passato, insomma, ma poveri di un presente in grado di valorizzarlo: non ci sono più i consumatori d'élite, per i quali erano stati costruiti i grandi teatri e musei, come ha rilevato Francesco Micheli, presidente della Micheli Associati. Anche la lingua, che dovrebbe avvicinare gli strati sociali più popolari alla cultura, continua a esprimersi attraverso parole vecchie, asfittiche, omologate e in ultima analisi prigioniere del recinto in cui stanno racchiusi i nostri quattro milioni di lettori forti. E gli altri? Tagliati fuori: come se un'enorme testa intellettuale poggiasse su gambe fragilissime, secondo l'immagine proposta dal presidente del Centro per il Libro Gian Arturo Ferrari. E qui le exit-strategy, le vie d'uscita dall'impasse, paiono tutto sommato due. Una è quella dell'apertura internazionale: se il nostro patrimonio culturale non è adeguato al presente e lo Stato nazionale ci ha dato soltanto delusioni, tanto vale giocare in trasferta e misurarsi con l'Europa (qui per esempio si sono ritrovati la storica Simona Colarizi e il presidente dell'Ispi Boris Biancheri, ma anche il presidente della Pirelli Marco Tronchetti Provera, che ha insistito su un nuovo modello di sviluppo). Oppure dedicarsi alla costruzione di una nuova classe dirigente (su questo insiste il rettore della Università Cattolica di Milano Lorenzo Ornaghi), e in particolare di un corpo insegnante motivato e premiato (il suggerimento dell'economista Fabrizio Onida), aggrappandoci intanto al ceppo dei valori greco-romani e cristiani (il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano). Battitori liberi, pur da prospettive diverse, Umberto Veronesi e Antonio Scurati. Lo scienziato, scettico sul ruolo del patrimonio acquisito linguistico e nazionale, tutto teso alla necessità di cercare una piena integrazione non solo umanistica, ma soprattutto scientifica, con l'Europa. Lo scrittore, convinto che l'investimento culturale strategico sia principalmente quello nell'immaginario, l'unico capace di spostare montagne e alzare barricate (come durante le Cinque Giornate di Milano, quando le pagine del Berchet e i quadri di Hayez pesarono più della potenza militare di Radetzky). Ed eccoci allo snodo: un nuovo rapporto fra cultura umanistica e scientifica, su cui lo Stato possa giocare un nuovo ruolo, collegando la dimensione locale (città, regione, territorio, su cui ha insistito Davide Rampello, presidente della Triennale di Milano) a quella globale (l'Europa e poi il mercato più ampio). La politica, dunque, è chiamata a svolgere un ruolo di conciliazione e sviluppo del «sistema paese». Ma siamo sicuri di parlare dell'Italia che è, e non di quella che vorremmo fosse?
«Corriere della Sera» del 9 febbraio2010
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