24 febbraio 2010

Se l’educazione è senza argini

«Quando non ha limiti il piccolo sconfina sistematicamente e finisce con l’ammalarsi», dice il pedagogista Daniele Novara
di Rossana Sisti
Oggi i genitori sono troppo preoccupati di costruire con i figli relazioni alla pari
La metafora è quella del greto del fiume. «Senza argini l’ac­qua impetuosa straripa. E co­sì è la vita dei bambini, senza argi­ni il loro impeto e la loro energia non li condurranno tranquillamen­te alla vita adulta. Bisogna incana­larli e contenerli. Questa è l’educa­zione, il compito dei genitori. Se non ha limiti il bambino sconfina siste­maticamente e finisce con l’amma­larsi ». Quando Daniele Novara parla di malattie dell’educazione pensa al­l’insonnia, all’obesità, all’enuresi notturne, persino alle difficoltà sco­lastiche, a tutti quei nuovi disturbi che costituiscono il settanta per cento dell’attività ordinaria dei pe­diatri. Disturbi che i medici fatica­no a guarire, per cui non servono medicine semplicemente perché nascono quando qualcosa no va nell’educazione.
«Un’educazione che c’è, dice, perché ai bambini si cerca di non far mancare nulla, ma che non riesce a rispondere ai loro bisogni profondi». Pedago­gista, direttore da vent’anni del Cen­tro psicopedagogi­co per la pace e la gestione dei conflit­ti di Piacenza, Daniele Novara i ge­nitori li ascolta da una vita. Confu­si e disorientati, pieni di sensi di col­pa, appesantiti da un passato fatto di millenni di vessazioni sui bam­bini, ma preoccupati di far bene, di non commettere gli errori delle ge­nerazioni passate, di costruire con i figli relazioni autentiche non au­toritarie e alla pari, affettuose e coin­volgenti. Morbide.
«Troppo morbide, spiega. Le ma­­lattie dell’educazione nascono so­prattutto da un eccesso di accudi­mento e di cure. I genitori si sono ri­tagliati un ruolo di riferimento af­fettivo rinunciando al senso stesso della presenza adulta nella vita dei figli, che è insegnare loro a stare al mondo. Ovvero l’autonomia». Pa­radossalmente, quando l’eccesso si sovrappone alla trascuratezza af­fettiva i disastri non cambiano. «Prendiamo il problemi dell’inson­nia e del lettone, un classico. I di­sturbi del sonno dei bambini – ci so­no piccoli di quattro anni che dor­mono su per giù sette ore a notte – sono il sintomo di un bisogno dei genitori di non staccarsi mai dai fi­gli e di una difficoltà a mettere una regola chiara sulla notte. L’orario e la decisione di andare a letto sono spesso frutto di negoziati penosi, lunghi e faticosi, di una battaglia che spesso lascia morti e feriti sul cam­po, perché manca una regola chia­ra. E così lo sconfinamento nel let­tone, un disturbo serio dal punto di vista emotivo ma parecchio sotto­valutato dai genitori».
Da un’indagine svolta dal Centro di Piacenza tra i bambini di prima e­lementare, di sei città italiane sono emersi numeri preoccupanti: il 20 per cento dei bambini passa siste­maticamente la notte nel letto di mamma e papà, spesso espro­priando quest’ultimo che migra nel­la cameretta del pupo, mentre un altro 40 per cento va e viene dal let­tino al lettone con soste più o me­no prolungate. «Mentre il bambino controlla ses­sualmente i genitori, continua No­vara, questi gli manifestano un af­fetto totale, uno spasmodico biso­gno simbiotico di compiacerlo, in­vece di lavorare per la sua autono­mia. Vedo in questi genitori una dif­ficoltà evidente a stabilire una giu­sta distanza nell’educare. Il fatto è che l’atteggiamento di tipo mater­no, protettivo simbiotico alla lunga non funziona. Molti adulti credono che un buon rapporto con i figli debba essere fondato sulla vicinan­za e sulla confidenza continua e as­soluta, che deve proseguire anche di notte. Non è così. Si cresce in uno spazio definito e regolato di confi­ni chiari e di libertà. La pipì a letto dei bambini, dopo i cinque, e la dif­ficoltà nel togliere il pannolone so­no altrettanti sintomi di uno stesso disagio. Papa e mamma sono ac­condiscendenti, lasciano fare, sen­za capire che il loro eccesso provo­ca atteggiamenti tirannici del bam­bino. La parola stessa incontinenza suggerisce il nesso tra l’enuresi e la mancanza di argini e di conteni­mento dell’ambiente familiare».
Che anche i disturbi del linguaggio come quelli dell’alimentazione non siano difficoltà da rimandare tanto al logopedista o al dieto­logo ma nuovamente a un difetto educativo è un’ulteriore conferma per Da­niele Novara, che i genitori va­dano aiutati nel capire il loro compito. E non è un caso che il libro che offre u­na moltitudine di riflessioni e grado di intercettare le richieste del bambino prima ancora che questi le esprima verbalmente, a lui non resta che disattivare queste funzio­ni, salvo arrivare a tre anni senza strutture di linguaggio sufficiente­mente articolate. Se infine si confonde l’alimentazione con il ri­to sacro e comunicativo del man­giare come occasione d’incontro, l’equivoco è totale e le cose non van­no meglio». Il bambino che ha accesso al frigo a qualsiasi orario, che partecipa a pranzi e cene in cui tv e cellulari so­no accesi e ognuno pensa ai casi suoi, che infine vive una vita da se­dentario televisivo, evidentemente ingrassa. Gli scompensi sono lam­panti. Con la pacatezza e l’ironia che gli sono congeniali Daniele Novara propone una semplice soluzione, da sperimentare. «Dobbiamo usci­re dalla cultura delle proibizioni e punizioni ed entrare in quella delle regole».
«Noi lo sgridiamo tanto… –, mi di­cono molti genitori, disperati dei ca­pricci del figlio. – Lo minacciamo di togliergli la tv…» ma così, confon­dendo la regola con il comando, non fanno che indebolire il proprio ruolo. Allora l’effetto è drammati­co: ma se la regola è chiara, se è sta­ta capita, se i genitori la condivido­no sistematicamente e sono uniti nel farla rispettare, il bambino si a­degua facilmente, l’acquisisce la re­gola naturalmente come fatto di li­bertà. Come un territorio entro cui può muoversi liberamente.
Invece da noi continua a imperver­sare la cultura del genitore sponta­neo, che a volte concede a volte no, a seconda dei propri umori, che di­scute, che accondiscende pur di non dispiacere al bimbo, che si pie­ga a scaramucce continue alla do­manda ossessiva… «e tu cosa vuoi fare?» Interrogativo che caccia i bambini in uno stato di ansia e agi­tazione, in una specie di orfanità e­ducativa. Mentre al contrario a­vrebbero bisogno di sentire che i ge­nitori sanno prendere decisioni e responsabilità. E sono determinati.
«Avvenire» del 24 febbraio 2010

Nessun commento: