La disabilità estrema e noi
di Marina Corradi
«Che mia figlia non viva nella casa del nonno, paralizzato e muto per una sindrome neurologica. È troppo triste, troppo afflittivo per un bambino, assistere a certe situazioni». È, in sostanza, la richiesta di un padre separato al tribunale. E non è un caso isolato.
Dunque in quel laboratorio di diritti e affetti che sono le divisioni fra coniugi, in cui vengono alla luce prima che altrove questioni che altrimenti si discutono fra le mura di casa, emerge una nuova domanda che pretende di essere affermata giuridicamente: il diritto a non vedere la malattia e la sofferenza. Qualcosa di ulteriore rispetto al «diritto a morire» teorizzato nella battaglia per l’eutanasia: la pretesa di non far vedere quegli stati di vita, che ai sani possono apparire inaccettabili. O almeno questa pretesa comincia con i bambini, vestendosi di premura paterna: che la bambina non entri in quella casa dove il nonno, cui pure vuole bene, ora non risponde, non parla. Benché privo di una sofferenza fisica evidente, il silenzio degli stati vegetativi o delle sindromi analoghe è giudicato insopportabile; si va dal giudice, perché non sia mostrato ai figli e ai nipoti. Questa premura di genitori è singolare. Vuole nascondere la sofferenza di un vecchio, renderla come inesistente. Invisibile, come se quell’uomo fosse già morto.
Ma davvero, censurando una parte fondamentale della vita, gli adulti proteggono i figli, o invece non proteggono se stessi da ciò che agli occhi loro, e non del figlio, è intollerabile? Sembra paradossale: in un tempo in cui tutto è visibile anche ai bambini, dalla pornografia alla violenza, prende forma un ultimo tabù: la malattia, l’invalidità, e quell’area grigia dell’assenza da sé, che a molti sembra una morte da vivi. L’ultimo tabù, l’inguardabile, l’osceno, è la malattia, e tanto più quella che paralizza, allontana – ineludibile primizia della morte.
Eppure, chiunque non sia più un ragazzo ricorda di essere stato portato al capezzale dei nonni, di averli visti magari in agonia; di avere avuto in casa un vecchio reso assente e bisognoso di tutto dalla demenza. Veramente quel vedere ci ha danneggiato? No: ci ha mostrato che esistono anche la sofferenza e la fine, dunque ci ha spiegato qualcosa, della vita, di fondamentale. Certo, accanto ai bambini una volta c’erano adulti che sapevano stare di fronte alla sofferenza. Che, pure nella paura e nel dolore, avevano la memoria di un senso; che rendeva la fine dei vecchi, e non solo quella dei vecchi, non assurda. La speranza cristiana, magari neanche pienamente confessata ma respirata da sempre, in una naturale osmosi, alleviava e faceva umanamente tollerabili le invalidità e le agonie. Dolore, ma non insensato e cieco: e dunque le stanze dei malati potevano ben essere aperte ai bambini. Che proprio da quei momenti erano, e sono ancora provocati a farsi delle domande: per che cosa si vive e si muore, e cosa ne è di un nonno amato, quando sembra addormentato per sempre, e non riconosce più chi gli è caro. Domande che ne generano altre, che bruciano, che sfidano. Che fanno diventare grandi.
Ma forse oggi si preferiscono figli inebetiti dal rumore, storditi dai consumi. e il più a lungo possibile ignari della sofferenza, del limite che, in quanto uomini, hanno scritto addosso. O forse sono i padri che, avendo perso la memoria di un senso, stanno atterriti davanti a certe stanze di malati. Lì dentro si è insediato, tenace, assurdo, il dolore: una faccenda che, senza speranza, è atroce. Per questo vogliono che i loro figli non entrino, che i loro figli non vedano. Porte chiuse. Tabù. Signor giudice, che mia figlia non veda quel nonno assente, lontano, muto. A cui io, signor giudice, non tollero di stare davanti.
Dunque in quel laboratorio di diritti e affetti che sono le divisioni fra coniugi, in cui vengono alla luce prima che altrove questioni che altrimenti si discutono fra le mura di casa, emerge una nuova domanda che pretende di essere affermata giuridicamente: il diritto a non vedere la malattia e la sofferenza. Qualcosa di ulteriore rispetto al «diritto a morire» teorizzato nella battaglia per l’eutanasia: la pretesa di non far vedere quegli stati di vita, che ai sani possono apparire inaccettabili. O almeno questa pretesa comincia con i bambini, vestendosi di premura paterna: che la bambina non entri in quella casa dove il nonno, cui pure vuole bene, ora non risponde, non parla. Benché privo di una sofferenza fisica evidente, il silenzio degli stati vegetativi o delle sindromi analoghe è giudicato insopportabile; si va dal giudice, perché non sia mostrato ai figli e ai nipoti. Questa premura di genitori è singolare. Vuole nascondere la sofferenza di un vecchio, renderla come inesistente. Invisibile, come se quell’uomo fosse già morto.
Ma davvero, censurando una parte fondamentale della vita, gli adulti proteggono i figli, o invece non proteggono se stessi da ciò che agli occhi loro, e non del figlio, è intollerabile? Sembra paradossale: in un tempo in cui tutto è visibile anche ai bambini, dalla pornografia alla violenza, prende forma un ultimo tabù: la malattia, l’invalidità, e quell’area grigia dell’assenza da sé, che a molti sembra una morte da vivi. L’ultimo tabù, l’inguardabile, l’osceno, è la malattia, e tanto più quella che paralizza, allontana – ineludibile primizia della morte.
Eppure, chiunque non sia più un ragazzo ricorda di essere stato portato al capezzale dei nonni, di averli visti magari in agonia; di avere avuto in casa un vecchio reso assente e bisognoso di tutto dalla demenza. Veramente quel vedere ci ha danneggiato? No: ci ha mostrato che esistono anche la sofferenza e la fine, dunque ci ha spiegato qualcosa, della vita, di fondamentale. Certo, accanto ai bambini una volta c’erano adulti che sapevano stare di fronte alla sofferenza. Che, pure nella paura e nel dolore, avevano la memoria di un senso; che rendeva la fine dei vecchi, e non solo quella dei vecchi, non assurda. La speranza cristiana, magari neanche pienamente confessata ma respirata da sempre, in una naturale osmosi, alleviava e faceva umanamente tollerabili le invalidità e le agonie. Dolore, ma non insensato e cieco: e dunque le stanze dei malati potevano ben essere aperte ai bambini. Che proprio da quei momenti erano, e sono ancora provocati a farsi delle domande: per che cosa si vive e si muore, e cosa ne è di un nonno amato, quando sembra addormentato per sempre, e non riconosce più chi gli è caro. Domande che ne generano altre, che bruciano, che sfidano. Che fanno diventare grandi.
Ma forse oggi si preferiscono figli inebetiti dal rumore, storditi dai consumi. e il più a lungo possibile ignari della sofferenza, del limite che, in quanto uomini, hanno scritto addosso. O forse sono i padri che, avendo perso la memoria di un senso, stanno atterriti davanti a certe stanze di malati. Lì dentro si è insediato, tenace, assurdo, il dolore: una faccenda che, senza speranza, è atroce. Per questo vogliono che i loro figli non entrino, che i loro figli non vedano. Porte chiuse. Tabù. Signor giudice, che mia figlia non veda quel nonno assente, lontano, muto. A cui io, signor giudice, non tollero di stare davanti.
«Avvenire» del 28 febbraio 2010
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