24 febbraio 2010

La preghiera laica dei poeti

di Lorenzo Fazzini
Affinati: «Una fede maggiorenne, non la farmacia dei paurosi»
Eraldo Affinati è insegnante e scrittore, come testimoniano i suoi Secoli di gioventù e Un teologo contro Hitler (Mondadori) sulla figura di Bonhoeffer. E nel mon­do giovanile vede insospettati se­gnali di inquietudine religiosa.
Il Papa nota che vi sono atei che vor­rebbero avvicinare Dio. Questa fi­gura antropologica è diffusa tra i giovani? «Penso che oggi, più di ieri, la sensi­bilità religiosa sia presente in molti giovani sotto mentite spoglie: anche quelli che non professano un credo, spesso sono capaci di gratuità a fon­do perduto. Viceversa, coloro che sembrano essere più in linea con mo­delli tradizionali, tal­volta stentano a tro­vare una strada che li soddisfi. Numero­si ragazzi si sentono lacerati da pulsioni contrastanti: vor­rebbero affermare posizioni radicali, ma non riescono a sottrarsi ai codici di comportamento che vanno per la maggiore. Del resto, come potrebbero diventare maestri dei loro genitori? I miti del successo, della sanità e della bellezza annichili­scono ogni ricerca
interiore».
Il «cortile dei gentili» è immagine della sete di fede. Questo desiderio pare dal consumismo dilagante. L’insoddisfazione può assumere co­lorazioni religiose? «Il trionfo del mercato lascia dietro di sé una scia di aridità, ma anche u­na benefica insoddisfazione. Io il cortile dei gentili credo di viverlo o­gni giorno alla Città dei ragazzi, la comunità fondata a Roma da mon­signor Carroll Abbing, dove vengo­no accolti adolescenti di tutto il mondo, che si gestiscono in autogo­verno. Un giorno tre miei scolari mi dissero di essere andati a rendere o­maggio alle spoglie di Giovanni Pao­lo II. Uno era afghano, musulmano, uno moldavo, ortodosso, un altro i­taliano, indifferente. Chiesi perché lo avessero fatto. Rispose il musul­mano: per rispetto. Pensai che quei tre sedicenni avevano realizzato da soli quello che i grandi capi di Stato non riescono a fare: si erano messi d’accordo, ognuno era rimasto se stesso, ma avevano compiuto un ge­sto nel quale tutti si riconoscevano».
Cosa dovrebbe causare nel mondo cattolico questo scambio tra cre­denti e non credenti? «In un mondo in cui ancora troppi pensano unicamente al colore della casacca che indossano e alla realtà multiculturale contrappongono so­lo la filosofia del condominio, que­sto dialogo potrebbe diventare l’a­vanguardia di un nuova relazione u­mana. Se ognuno riuscisse a guar­dare l’altro com’è avremmo realiz­zato l’unica vera rivoluzione fra tut­te quelle fallite nel sangue del Nove­cento. Purtroppo siamo molto distan­ti da questo auspicio a causa dei pregiu­dizi. Io credo che la Chiesa, accanto alla necessaria struttura istituzionale, avreb­be bisogno di 'a­genti segreti', nel senso in cui inten­deva Dietrich Bonhoeffer: persone che nella vita quoti­diano mostrano Cri­sto nei fatti, senza proclami. Questi in­dividui secondo me sono i migliori. Ho riletto di recente In­troduzione al cri­stianesimo
di Joseph Ratzinger, scritto nel 1968. E vi ho trovato riferimenti a Bonhoeffer. In quel libro si com­prendeva l’intuizione di un cristia­nesimo adulto, di un Dio che non sia un tappabuchi e di una Chiesa che non diventi farmacia di senso, ben­sì la necessità di una religione che sia maggiorenne. Sento in maniera lancinante questa esigenza, che non vedo pienamente realizzata».
È ancora valida la «pretesa» della re­ligione di parlare di Dio in chiave culturale? «A volte parla di Dio più chi lo nega di chi lo afferma. Noi italiani abbia­mo esempi clamorosi: Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi. Entrambi atei materialisti, forzarono romantica­mente quello stesso limite raziona­le che sentivano invalicabile, il pri­mo nel sentimento del sepolcro, il secondo nella concezione evangeli­ca dell’amicizia. Oggi possono inse­gnarci a superare gli steccati».
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Mastrocola: «Sopra la materia, scoprire l’altro piano del vivere»

« I grandi poeti del passato, anche se atei, si sono sempre posti questi in­terrogativi: in Leopardi, il più ateo, c’era sempre la domanda sul fine ultimo e il senso della vita. Ora que­sti interrogativi stanno cadendo».
Da appassionata educatrice e scrit­trice apprezzata (si ricorda La gal­lina volante del suo esordio, edito da Guanda), Paola Mastrocola chie­de di tornare alla poesia per acce­dere al «secondo piano» dell’esistenza.
Il Papa ha parlato di quanti vedo­no Dio come «sconosciuto» ma che vorrebbero avvicinarlo come «Sco­nosciuto ». Da insegnante, i giova­ni che lei incontra fanno parte del­la prima o della se­conda categoria? «Faccio un passo in­dietro. Prima di Dio parlerei di valori meno connotati re­ligiosamente ma di natura metafisica. Ma oggi, ahimè, tra i giovani manca la spiritualità, cioè il desiderio di andare oltre il materiale. È assente 'il secondo piano' della vita. Al primo vi sono il la­voro, i consumi… al secondo l’ordine simbolico e l’ideali­smo. Ebbene, que­sto manca. Come ci può essere Dio in un mondo tutto ap­piattito sul materiale? Io insegno let­teratura italiana. Secondo me, che forse non sono neppure cattolica, è una cosa molto religiosa perché par­la del 'secondo piano' dell’esisten­za: insegna che oltre alla lettera nel testo c’è dell’altro».
Tempo fa ci fu chi – Ferruccio Pa­razzoli – denunciò che i grandi te­mi nei romanzi di oggi sono spari­ti. Nella letteratura odierna Dio è presente? «Condivido l’affermazione di Pa­razzoli: e la letteratura è colpevole perché ha smarrito la sua strada. La stessa caduta di importanza dell’e­lemento lirico è grave: non esiste più la lirica, non si vende la poesia e – se oggi non si vende – ancora meno si pubblica. Ha mai visto un libro di poesia in vetrina? Eppure la poesia è la versione laica della preghiera. Questo dovremmo ricominciare a fare a scuola, leggere poesia: sareb- be un modo laico per portare i gio­vani a Dio. C’è bisogno di educare a una religiosità che non sia imme­diatamente connotata, che risulti e­ducazione alla metafisica».
Da quali autori potrebbe prendere nuovo slancio il dialogo tra laici e cattolici? «Mi piacerebbe che si tornasse a leg­gere la Bibbia, sparita dalla scuola. Io alla fine della quinta elementare conoscevo tutte le storie del più grande paradigma culturalmente dell’Occidente. Leggiamo la Bibbia in classe, oltre a Omero! Poi farei leg­gere la prima parte delle Confessio­ni di Agostino. È un’opera impor­tantissima per un ragazzo che sta crescendo, scritta da un giovane che ha incontrato Dio».
Si può insegnare Dio? «Lo si dovrebbe sug­gerire senza lancia­re nessun messag­gio consapevole, al­trimenti diventa de­bole. Dobbiamo suggerirlo indiretta­mente nel nostro la­voro. Già un adulto che legge, che pre­dilige la contempla­zione all’azione im­mediata, è un’idea forte: ricordo l’epi­sodio che Agostino racconta nelle Con­fessioni, quando an­dava dal vescovo Ambrogio per con­sultarsi e chiedere consiglio, e questi non lo riceveva perché stava leggendo. Sentire che Ambrogio stava leggendo era il mi­glior incontro con Dio che Agostino potesse fare».
Come accoglie l’idea del «cortile» come luogo di dialogo tra credenti e non credenti? «Mi piace molto questa immagine, anche se la vedo ancora un po’ a­stratta; ma oggi non vedo una man­canza di dialogo. A me è successo sul piano educativo quando, anni fa, sono stata invitata da alcuni cat­tolici, nel caso specifico di Comu­nione e liberazione , a parlare dell’e­ducazione: fu un grandissimo in­contro, la pensavamo allo stesso modo. Ma un confronto simile può avvenire con un’altra idea forte di scuola, quella di don Milani. È un bene, comunque, che il Papa abbia detto tutto questo».
«Avvenire» del 23 febbraio 2010

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