La malattia, l'amore, la fine. «La nostra storia è un inno alla vita, non un quadretto alla Moccia»
di Virginia Piccolillo
Parla la mamma della ragazza, uccisa da un tumore, che ha ispirato D' Avenia Carattere Lei era una ragazzina solare. Senza preclusioni per nessuno. Piena d' amore. Non aveva paura di niente
Per gli altri è un caso editoriale. Per lei il dolore di una storia personale «tradita». Sua figlia, Irene, è morta a 15 anni di tumore. Alessandro D'Avenia, ispirandosi alla sua vicenda, ha scritto Bianca come il latte, rossa come il sangue (Mondadori). «Senza consultare né me, né i compagni di classe di Irene che si erano confidati con lui nei giorni in cui temporaneamente era il loro insegnante al liceo Dante di Roma», spiega Francesca Bartolucci, la madre. Lei non vuole entrare in polemica con l'autore («Mi ha scritto "abbi pietà di me" e, nonostante lo avessi cercato più volte, non mi ha incontrata»). Ma vuole difendere «la memoria di Irene e la sua storia: anche le vite brevi possono avere un grande senso». Eccola. «Irene è arrivata che ero ancora al liceo. L'ho voluta tenere contro tutti. Contro suo padre. Contro il mio. Ed è stato bellissimo. Siamo cresciute insieme. Ho fatto la maturità con lei. All'università portavo i libri nella carrozzina. Ho dato l'esame della patente con lei. E insieme siamo venute via da Ferrara e arrivate a Roma, dove ho iniziato a lavorare con l'uomo che sarebbe diventato mio marito». Francesca sorride e allunga gli occhi. È uno sguardo innamorato. Non disperato. Spiazza. Lei intuisce e spiega perché: «Irene era strafelice della vita. Una ragazzina solare. Senza preclusioni per nessuno. Senza sospetti. Piena d'amore. Guardandola pensavo: ci sono bimbe con storie lineari piene di ansie. Lei non aveva paura di niente. Tantissime amiche. Felicissima di avere avuto un altro fratello. La sorellina era stata la gioia più grande. Poi il piccolino». «Era anche molto carina. Con quei capelli rossi, lunghi. Il sorriso che l'accendeva. Avevo mantenuto il rapporto madre-figlia. Ma eravamo anche amiche. Ascoltavamo la stessa musica. E alle compagne con un problema diceva: dillo a mia madre, lei ti capisce». L'ha capita, Francesca. Quella figlia «che apriva a tutti le porte, anche quella del dolore». «All'inizio lei pensava fosse un'influenza. Ma il mal di testa non passava. Con la risonanza magnetica la diagnosi: un tumore al cervello e quattro mesi di vita. Me l'hanno detto lì. Di colpo. È come avere una palla di cristallo che ti si rompe tra le mani. Senti che la tua vita, non è più tua. Irene era fuori. Per proteggerla le ho detto: "Non è nulla"». Ma Irene no. Non l'ha tenuto per sé. Da subito, l'ha vissuto alla sua maniera. Francesca si illumina d'orgoglio: «Una forza d'animo eccezionale. Dopo la prima operazione, 10 giorni dopo la diagnosi, ha capito. Era in parte paralizzata. Ma ha creato un circuito con tutti gli amici. Non l'hanno lasciata mai sola. In rianimazione le facevano le guardie. Nell'hospice di Antea, gli ultimi giorni, le andavano a suonare "Piccola stella senza cielo" di Ligabue. Ancora fanno da baby-sitter ai suoi fratellini. Irene parlava con loro. Piangeva anche. (Con me non l'ha mai fatto). Condividevano tutto. E dopo l'intervento ha ripreso a camminare. A scrivere. È tornata a scuola e il preside le ha fatto ridipingere l'aula tutta colorata. Lei nello studio non era un granché, ma amava l'arte, i quadri, il teatro. Per questo poi la scuola, insieme al Festival di Ravello, le ha intitolato un premio teatrale. Era curiosa. Creativa. Piena di vita». Torna a sorridere, Francesca. Non pronuncia mai la parola morte. Né la parole fine. Ma vita sì. «Me lo ha insegnato lei. Irene sapeva dare senso alla vita. È come se hai una telecamera fissa su un albero. Poi allarghi il campo e scopri tutta la vita del bosco che c'è attorno. Lei era così. Dava importanza a tutto. E facevamo di tutto». Di tutto? «Ma sì. Anche cose pazze. Persino affittare una macchina blu con l'autista per portarla in via Condotti per negozi, quando aveva detto: "Li rivedrò mai?". O portarla a mangiare pasta alle vongole in riva al mare. O mandare a quel paese a squarciagola l'autobus che la portava a scuola». Ma era un senso profondo quello che Irene aveva dato agli ultimi, pazzi, giorni. È questo il punto più delicato per Francesca. Quello più «mistificato» dal romanzo: «Non era un quadretto alla Tre metri sopra il cielo. Le domande importanti questi ragazzi le facevano. Irene, alle amiche, chiedeva: "Perché è capitato a me?". E da me venivano per chiedere: "Ma Dio esiste davvero?". Insieme abbiamo trovato le risposte. Abbiamo anche tanto pregato insieme. Ma la visione semplicistica del libro è distorta. Per tutti è stato un percorso di crescita. Non un insieme di paradigmi morali e frasi fatte». E mentre si affanna per spiegarlo, per la prima volta, gli occhi di Francesca si riempiono di lacrime.
Alessandro D' Avenia, 32 anni, insegna lettere in un liceo di Milano. È anche sceneggiatore. Il suo romanzo d' esordio Bianca come il latte, rossa come il sangue è uscito a fine gennaio da Mondadori
Alessandro D' Avenia, 32 anni, insegna lettere in un liceo di Milano. È anche sceneggiatore. Il suo romanzo d' esordio Bianca come il latte, rossa come il sangue è uscito a fine gennaio da Mondadori
«Corriere della Sera» del 10 febbraio 2010
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