I veri processi non sono quelli mediatici
di Francesco D'Agostino
In quel tormentone, tipicamente italiano, che è il dibattito sulle intercettazioni telefoniche è emersa l’espressione «condannato mediatico» usata dal direttore del Tg1 Augusto Minzolini e, suppongo, inventata da lui. L’espressione è efficace e, al di là delle polemiche sulle scelte editoriali della testata ammiraglia dell’informazione tv, dovrebbe far riflettere seriamente tutti. Purtroppo è invece divenuta occasione di ennesimi e sterili dibattiti, che hanno visto come protagonisti quasi esclusivamente giornalisti e politici. Eppure la questione delle intercettazioni non è primariamente politica o giornalistica, bensì giuridica; è una questione di giustizia ed è su questo testo che dobbiamo battere e ribattere, anche se so bene che questo approccio alla questione susciterà le ironie dei 'realisti', per i quali al di là della prospettiva politica non può esisterne alcun’altra.
Qual è il fine delle intercettazioni? Lo sappiamo: l’accertamento di responsabilità penali. Basta questo fine, così ragionevole e condivisibile, a giustificarle? No, perché di per sé il fine non giustifica i mezzi. Se così non fosse, dovremmo per coerenza giustificare la tortura come strumento di indagine, dato che (purtroppo e diversamente da come pensava Beccaria) dal punto di vista inquisitorio e probatorio la tortura, tranne rari casi, 'funziona'.
Esiste un limite insuperabile, che le intercettazioni devono rispettare, per non divenire irrimediabilmente ingiuste: la presunzione di innocenza dell’inquisito. Su questa presunzione si fonda non solo tutto il diritto penale, ma a ben vedere la democrazia stessa, in qualsiasi modo la si voglia intendere. Nessuno va ritenuto colpevole fino a condanna definitiva. Ma il sistema delle intercettazioni, quando viene amplificato dai mass-media, come avviene ormai sistematicamente e da anni in Italia, crea nell’opinione pubblica la figura del «condannato mediatico», attivando giudizi e soprattutto pregiudizi che si cristallizzano e che accompagnano l’inquisito nei lunghi mesi (o più di frequente nei lunghissimi anni) che sono necessari per giungere alla fine delle vertenze giudiziarie. A ciò si aggiunga il fatto che risulta pressoché impossibile rimuovere tali pregiudizi, anche se l’innocenza dell’intercettato viene poi ampiamente riconosciuta dai giudici al termine del processo. Gli esiti di tutto questo sono catastrofali sul piano della giustizia e dovrebbero essere ormai sotto gli occhi di tutti: l’Italia è divenuto il Paese in cui, attraverso intercettazioni pur legalmente autorizzate dalla magistratura, troppi cittadini sono divenuti vittime di ingiustificate umiliazioni, sofferenze, emarginazioni professionali, familiari e sociali, per le quali non può esistere forma di compensazione adeguata.
Esistono rimedi? Certamente, a condizione che la questione venga affrontata nella logica della giustizia e non in quella della politica. Non si tratta di proibire le intercettazioni, ma la loro diffusione mediatica; di consentirne cioè la conoscenza, oltre che ai magistrati cui sono affidate le indagini, solo alla difesa, almeno fino al loro uso dibattimentale. L’esigenza di segretare le intercettazioni dovrebbe essere calibrata esattamente sulle stesse modalità attraverso le quali viene garantita la privacy dei dati sensibili.
Di fronte a un simile discorso molti giornalisti – ma non tutti, e Avvenire lo testimonia con la sua ormai antica scelta di sobrietà e di aderenza ai fatti nel trattare le vicende giudiziarie e i materiali collegati a esse – torneranno a ripetere che così si finirebbe per limitare la libertà di stampa. Il rischio non c’è; ma ammesso e non concesso che ci sia, osservo che la presunzione di innocenza, come diritto fondamentale, ha una priorità rispetto alla libertà di stampa. Lo si può dimostrare facilmente. Segretare le intercettazioni non significa proibire che vengano diffuse notizie in merito alle attività inquirenti dei magistrati o ai nomi degli inquisiti. Né a maggior ragione significa proibire o segretare per sempre le trascrizioni delle telefonate. Si tratta solo di imporre ai mass-media di non darne notizia fino al momento in cui cominci la fase dibattimentale del processo, nella quale devono essere pubblicamente esibite tutte le prove favorevoli o contrarie all’imputato. La libertà di stampa non viene quindi né umiliata né offesa, ma semplicemente limitata, in nome del superiore diritto di ogni cittadino di essere considerato innocente fino alla condanna definitiva. Quando, invece, ben prima che il processo cominci, anzi ben prima a volte che l’intercettato assuma formalmente il ruolo di imputato, le intercettazioni (inevitabilmente pubblicate non nella loro integrità, ma con tagli più o meno maliziosi) attivano nella pubblica opinione una convinzione di colpevolezza, destinata a divenire ben presto indelebile, il diritto alla presunzione di innocenza viene completamente cancellato. È così che si realizza l’ingiustizia.
Qual è il fine delle intercettazioni? Lo sappiamo: l’accertamento di responsabilità penali. Basta questo fine, così ragionevole e condivisibile, a giustificarle? No, perché di per sé il fine non giustifica i mezzi. Se così non fosse, dovremmo per coerenza giustificare la tortura come strumento di indagine, dato che (purtroppo e diversamente da come pensava Beccaria) dal punto di vista inquisitorio e probatorio la tortura, tranne rari casi, 'funziona'.
Esiste un limite insuperabile, che le intercettazioni devono rispettare, per non divenire irrimediabilmente ingiuste: la presunzione di innocenza dell’inquisito. Su questa presunzione si fonda non solo tutto il diritto penale, ma a ben vedere la democrazia stessa, in qualsiasi modo la si voglia intendere. Nessuno va ritenuto colpevole fino a condanna definitiva. Ma il sistema delle intercettazioni, quando viene amplificato dai mass-media, come avviene ormai sistematicamente e da anni in Italia, crea nell’opinione pubblica la figura del «condannato mediatico», attivando giudizi e soprattutto pregiudizi che si cristallizzano e che accompagnano l’inquisito nei lunghi mesi (o più di frequente nei lunghissimi anni) che sono necessari per giungere alla fine delle vertenze giudiziarie. A ciò si aggiunga il fatto che risulta pressoché impossibile rimuovere tali pregiudizi, anche se l’innocenza dell’intercettato viene poi ampiamente riconosciuta dai giudici al termine del processo. Gli esiti di tutto questo sono catastrofali sul piano della giustizia e dovrebbero essere ormai sotto gli occhi di tutti: l’Italia è divenuto il Paese in cui, attraverso intercettazioni pur legalmente autorizzate dalla magistratura, troppi cittadini sono divenuti vittime di ingiustificate umiliazioni, sofferenze, emarginazioni professionali, familiari e sociali, per le quali non può esistere forma di compensazione adeguata.
Esistono rimedi? Certamente, a condizione che la questione venga affrontata nella logica della giustizia e non in quella della politica. Non si tratta di proibire le intercettazioni, ma la loro diffusione mediatica; di consentirne cioè la conoscenza, oltre che ai magistrati cui sono affidate le indagini, solo alla difesa, almeno fino al loro uso dibattimentale. L’esigenza di segretare le intercettazioni dovrebbe essere calibrata esattamente sulle stesse modalità attraverso le quali viene garantita la privacy dei dati sensibili.
Di fronte a un simile discorso molti giornalisti – ma non tutti, e Avvenire lo testimonia con la sua ormai antica scelta di sobrietà e di aderenza ai fatti nel trattare le vicende giudiziarie e i materiali collegati a esse – torneranno a ripetere che così si finirebbe per limitare la libertà di stampa. Il rischio non c’è; ma ammesso e non concesso che ci sia, osservo che la presunzione di innocenza, come diritto fondamentale, ha una priorità rispetto alla libertà di stampa. Lo si può dimostrare facilmente. Segretare le intercettazioni non significa proibire che vengano diffuse notizie in merito alle attività inquirenti dei magistrati o ai nomi degli inquisiti. Né a maggior ragione significa proibire o segretare per sempre le trascrizioni delle telefonate. Si tratta solo di imporre ai mass-media di non darne notizia fino al momento in cui cominci la fase dibattimentale del processo, nella quale devono essere pubblicamente esibite tutte le prove favorevoli o contrarie all’imputato. La libertà di stampa non viene quindi né umiliata né offesa, ma semplicemente limitata, in nome del superiore diritto di ogni cittadino di essere considerato innocente fino alla condanna definitiva. Quando, invece, ben prima che il processo cominci, anzi ben prima a volte che l’intercettato assuma formalmente il ruolo di imputato, le intercettazioni (inevitabilmente pubblicate non nella loro integrità, ma con tagli più o meno maliziosi) attivano nella pubblica opinione una convinzione di colpevolezza, destinata a divenire ben presto indelebile, il diritto alla presunzione di innocenza viene completamente cancellato. È così che si realizza l’ingiustizia.
«Avvenire» del 23 febbraio 2010
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