Google condannata per violazione della privacy, non avendo impedito che fosse messo in rete il video choc del minore affetto da autismo picchiato dai compagni di scuola a Torino. Ma assolta dall'accusa di diffamazione. Una sentenza che fa discutere. Storica, comunque, per tutti
di Giovanni Valentini
La notizia ha già fatto in poche ore il giro del mondo. E continuerà a farlo, mentre scriviamo questo articolo, stampiamo questo giornale e pubblichiamo questa notizia. L'informazione on line è immediata, istantanea, in tempo reale. Tanto più quando riguarda direttamente la medesima rete e di riflesso gli internauti di tutto il globo, la grande comunità planetaria dell'universo virtuale. Né c'è da stupirsi troppo che abbia aperto un inedito caso diplomatico fra Italia e Stati Uniti, con l'ambasciatore americano che invoca la libertà di Internet come ultimo baluardo della democrazia.
È la prima volta in assoluto, infatti, che il Tribunale di un Paese si arroga il diritto di giudicare il comportamento dei "signori del Web": nel caso specifico, i tecnocrati di Google, il motore di ricerca più potente del mondo, il motore dei motori. Condannati per violazione della privacy, non avendo impedito che fosse messo in rete il video choc del minore affetto da autismo picchiato dai compagni di scuola a Torino. Ma assolti nel contempo dall'accusa di diffamazione. Una vittoria, in pratica, per i produttori di contenuti. Uno scandalo per il popolo di Internet. Una sentenza storica, comunque, per tutti.
In attesa di leggerne le motivazioni, proviamo a interpretarne le ragioni. A cominciare proprio dalla duplice valenza del dispositivo: sì alla violazione della privacy, perché si tratta di dati personali sensibili per la diffusione dei quali occorre comunque il consenso dell'interessato; no alla diffamazione, perché (presumibilmente) non c'è al momento alcun obbligo giuridico a carico di Google o di altri soggetti e quindi non può essere contestato l'omesso controllo, come avviene invece per i giornali e gli altri organi d'informazione.
Il punto cruciale è proprio questo. Un sito web non è necessariamente un giornale. Google o qualsiasi altro motore di ricerca non è un organo di informazione, ma una piattaforma, uno spazio aperto, una bacheca elettronica, su cui chiunque è libero di scrivere o pubblicare quello che vuole. E dunque, come sostengono i paladini della rete, Internet non può essere sottoposta ad alcun limite o vincolo.
In realtà, più che di limiti o vincoli, qui si tratta a ben vedere di regole. Lo sviluppo tumultuoso della rete non deve pregiudicare la sua matrice libertaria, tendenzialmente anarchica, trasgressiva. E nessuno, comunque, riuscirebbe ormai a soffocarla o a sopprimerla. Ma nell'interesse stesso di Internet, della sua libertà e creatività, neppure la moderna cultura digitale può eludere il principio di responsabilità nei confronti dei terzi: a maggior ragione se - come nel nostro caso - si tratta di minori, affetti da problemi di salute, vittime di una violenza fisica e mentale.
È una questione antica che la filosofia del diritto ha risolto da tempo. La libertà personale è assoluta, ma trova un limite invalicabile nel rispetto della libertà altrui. Per rivendicare ed esercitare legittimamente la propria libertà individuale, nessuno può pretendere di violare e offendere impunemente quella degli altri. Le leggi servono, appunto, per regolare la convivenza civile. E Internet non può fare eccezione.
Tutto ciò è tanto vero che gli stessi dirigenti di Google si sono preoccupati, seppure dopo due mesi, di rimuovere il video incriminato dal loro motore di ricerca, senza che nessuno parlasse di censura o di autocensura. Con ciò, riconoscendo implicitamente il proprio diritto-dovere di controllare, selezionare, intervenire. Hanno tardivamente applicato, cioè, quello stesso principio di responsabilità a cui ora la sentenza milanese li richiama in nome della privacy e in forza della legge.
I giuristi diranno magari che i magistrati hanno posto un problema "de iure condendo", di diritto da formulare, da definire. Se così fosse, questa pronuncia contribuirà verosimilmente a sollecitare una riflessione più ampia e approfondita, anche a livello internazionale. Ma la condanna di Milano non ha nulla a che fare con quelle per "sovversione telematica" di Pechino. E gli Stati Uniti, difensori della libertà e della democrazia mondiale, farebbero bene a non confondere l'Italia con la Cina, la giustizia italiana con il regime cinese.
È la prima volta in assoluto, infatti, che il Tribunale di un Paese si arroga il diritto di giudicare il comportamento dei "signori del Web": nel caso specifico, i tecnocrati di Google, il motore di ricerca più potente del mondo, il motore dei motori. Condannati per violazione della privacy, non avendo impedito che fosse messo in rete il video choc del minore affetto da autismo picchiato dai compagni di scuola a Torino. Ma assolti nel contempo dall'accusa di diffamazione. Una vittoria, in pratica, per i produttori di contenuti. Uno scandalo per il popolo di Internet. Una sentenza storica, comunque, per tutti.
In attesa di leggerne le motivazioni, proviamo a interpretarne le ragioni. A cominciare proprio dalla duplice valenza del dispositivo: sì alla violazione della privacy, perché si tratta di dati personali sensibili per la diffusione dei quali occorre comunque il consenso dell'interessato; no alla diffamazione, perché (presumibilmente) non c'è al momento alcun obbligo giuridico a carico di Google o di altri soggetti e quindi non può essere contestato l'omesso controllo, come avviene invece per i giornali e gli altri organi d'informazione.
Il punto cruciale è proprio questo. Un sito web non è necessariamente un giornale. Google o qualsiasi altro motore di ricerca non è un organo di informazione, ma una piattaforma, uno spazio aperto, una bacheca elettronica, su cui chiunque è libero di scrivere o pubblicare quello che vuole. E dunque, come sostengono i paladini della rete, Internet non può essere sottoposta ad alcun limite o vincolo.
In realtà, più che di limiti o vincoli, qui si tratta a ben vedere di regole. Lo sviluppo tumultuoso della rete non deve pregiudicare la sua matrice libertaria, tendenzialmente anarchica, trasgressiva. E nessuno, comunque, riuscirebbe ormai a soffocarla o a sopprimerla. Ma nell'interesse stesso di Internet, della sua libertà e creatività, neppure la moderna cultura digitale può eludere il principio di responsabilità nei confronti dei terzi: a maggior ragione se - come nel nostro caso - si tratta di minori, affetti da problemi di salute, vittime di una violenza fisica e mentale.
È una questione antica che la filosofia del diritto ha risolto da tempo. La libertà personale è assoluta, ma trova un limite invalicabile nel rispetto della libertà altrui. Per rivendicare ed esercitare legittimamente la propria libertà individuale, nessuno può pretendere di violare e offendere impunemente quella degli altri. Le leggi servono, appunto, per regolare la convivenza civile. E Internet non può fare eccezione.
Tutto ciò è tanto vero che gli stessi dirigenti di Google si sono preoccupati, seppure dopo due mesi, di rimuovere il video incriminato dal loro motore di ricerca, senza che nessuno parlasse di censura o di autocensura. Con ciò, riconoscendo implicitamente il proprio diritto-dovere di controllare, selezionare, intervenire. Hanno tardivamente applicato, cioè, quello stesso principio di responsabilità a cui ora la sentenza milanese li richiama in nome della privacy e in forza della legge.
I giuristi diranno magari che i magistrati hanno posto un problema "de iure condendo", di diritto da formulare, da definire. Se così fosse, questa pronuncia contribuirà verosimilmente a sollecitare una riflessione più ampia e approfondita, anche a livello internazionale. Ma la condanna di Milano non ha nulla a che fare con quelle per "sovversione telematica" di Pechino. E gli Stati Uniti, difensori della libertà e della democrazia mondiale, farebbero bene a non confondere l'Italia con la Cina, la giustizia italiana con il regime cinese.
«La Repubblica» del 25 febbraio 2010
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