di Guido Ceronetti
Non so a che punto sia la faccenda, ma se la Francia lasciasse passare il burqa non sarebbe un atto di tolleranza, ma di resa e rinnegamento dei principii. Tollerare l’intolleranza fa vacillare le istituzioni repubblicane. Portare burqa è come mostrarsi in giro con manette ai polsi e un bavaglio sulla bocca.
-Ma io lo porto volontariamente! nessuno in famiglia me lo impone.
Sono io a volerlo. Perfino Chiesa cattolica è d’accordo, vescovi, professori... E’ atto di libertà individuale: lasciami girare in burqa!-
No. Io, legge repubblicana, nego. La legge vuole che tu la faccia la porti scoperta. Ma non basta: la legge che alla fine del XVIII sfondava le porte dei conventi di clausura e diceva alle monachine implacabilmente costrette nelle Regole delle fondatrici: «Uscite, e invece di ali angeliche indossate il paracadute della Nazione» sebbene nata nel profilo sinistro della ghigliottina, sventola ancora, e nei suoi tre oggi incruenti colori ammonitori veglia a salvaguardia del diritto delle donne di disporre di se stesse e ordina - necessariamente cogente - che il loro corpo sia libero di esporsi agli sguardi nei limiti da tutti accettati del pudore e della decenza. Se è proprio volere tuo puoi ingabbiarti nel burqa tra le mura di casa, ma in qualsiasi luogo pubblico la legge ugualitaria ti obbliga a deporlo.
O legge repubblicana che libera e scopre, o burqa che copre e opprime, burqa figura di antropologia antiuomo. Vero in eterno il pensiero dell’Arthashastra indiano (III sec. a. C.), il classico sanscrito di economia: «Senza il danda, i forti arrostirebbero i deboli come pesciolini infilzati» - dove danda vale esplicitamente castigo perché senza castigo la legge svanisce. Il dono immenso che le due rivoluzioni del XVIII ci hanno portato è una legislazione che in buona parte del pianeta, con moto di risacca ai confini, contrasta senza ambiguità l’opposta libertà familiare, tribale, settaria, religiosa, etnocentrica, sadistica generalmente, di comprimere, tarpare, occultare, schiacciare, controllare, spiare interiormente il singolo essere umano in tutto il suo arco di vita, spesso arrogandosi un potere infame di condannarlo a morte. Mettiamo il secolo XVIII al Pantheon, scrisse Saint-Just.
Dove a un malfermo diritto laico si contrappone la legge ugualmente valida della sha’arìa, tutti sono esposti all’arbitrio teocratico, e c’è burqa occludente per tutti. La legge autenticamente laica (quella che ci rimprovera il Papa) è là per sbarrare il passo a chi alla sua apatìa ateologica serenatrice sostituisce il tumulto teologico, la violenza di un principio avverso che perseguiti la libertà di peccare e di propagare eresia. Israele non esisterebbe come Stato moderno, vivibile in un mare di nazioni in cui prevale violenza teocratica, se si fosse data una legislazione di tipo deuteronomico-talmudico, da ghetto preilluministico, invece di prendere il diritto dall’Europa occidentale e dalla costituzione americana.
Ateologia giuridica non è ateismo, certamente. La legge repubblicana (preferisco dirla a questo modo anziché laica, che si presta ad equivoci) non è ideologica né totalitaria: il suo albero di Giona protegge l’ateo e il neo pagano insieme al Giusto che non pone confini a Dio, il suo occhio veglia sulla moschea come sull’intangibilità di San Petronio, sulle riunioni di filosofi nel nome di Giordano Bruno come su ermetisti, rosicruciani, pentecostali, e perfino satanisti: gli concede di adorare il celebre Caprone a patto di non far male a una mosca, di non spiaccicare un ragnetto, di non sfiorare con una mala intenzione la fronte di un bambino...
La legge repubblicana non è indifferente. Si prende cura. Cancella dalle strade il burqa perché offensivo della verità umana, perché manifesta un controllo sadistico di altro sulla vita. Kemal l’Atatùrk non era un tenerino ma fu un redentore della Turchia, per aver imposto militarmente una legge repubblicana neogiacobina, liberatrice dalla legge islamica e dalle tonache dei preti, e sollevando le donne dalla tristezza luttuosa di ogni variante di velo. Adesso in Turchia c’è un regime che scende a compromessi con gli islamisti: e questo rischia di perderla, e di impedirne l’entrata in Europa.
(Ma poi, in fondo, non è «la stessa illusione mondo e mente» come canta un bel verso di Ungaretti?).
-Ma io lo porto volontariamente! nessuno in famiglia me lo impone.
Sono io a volerlo. Perfino Chiesa cattolica è d’accordo, vescovi, professori... E’ atto di libertà individuale: lasciami girare in burqa!-
No. Io, legge repubblicana, nego. La legge vuole che tu la faccia la porti scoperta. Ma non basta: la legge che alla fine del XVIII sfondava le porte dei conventi di clausura e diceva alle monachine implacabilmente costrette nelle Regole delle fondatrici: «Uscite, e invece di ali angeliche indossate il paracadute della Nazione» sebbene nata nel profilo sinistro della ghigliottina, sventola ancora, e nei suoi tre oggi incruenti colori ammonitori veglia a salvaguardia del diritto delle donne di disporre di se stesse e ordina - necessariamente cogente - che il loro corpo sia libero di esporsi agli sguardi nei limiti da tutti accettati del pudore e della decenza. Se è proprio volere tuo puoi ingabbiarti nel burqa tra le mura di casa, ma in qualsiasi luogo pubblico la legge ugualitaria ti obbliga a deporlo.
O legge repubblicana che libera e scopre, o burqa che copre e opprime, burqa figura di antropologia antiuomo. Vero in eterno il pensiero dell’Arthashastra indiano (III sec. a. C.), il classico sanscrito di economia: «Senza il danda, i forti arrostirebbero i deboli come pesciolini infilzati» - dove danda vale esplicitamente castigo perché senza castigo la legge svanisce. Il dono immenso che le due rivoluzioni del XVIII ci hanno portato è una legislazione che in buona parte del pianeta, con moto di risacca ai confini, contrasta senza ambiguità l’opposta libertà familiare, tribale, settaria, religiosa, etnocentrica, sadistica generalmente, di comprimere, tarpare, occultare, schiacciare, controllare, spiare interiormente il singolo essere umano in tutto il suo arco di vita, spesso arrogandosi un potere infame di condannarlo a morte. Mettiamo il secolo XVIII al Pantheon, scrisse Saint-Just.
Dove a un malfermo diritto laico si contrappone la legge ugualmente valida della sha’arìa, tutti sono esposti all’arbitrio teocratico, e c’è burqa occludente per tutti. La legge autenticamente laica (quella che ci rimprovera il Papa) è là per sbarrare il passo a chi alla sua apatìa ateologica serenatrice sostituisce il tumulto teologico, la violenza di un principio avverso che perseguiti la libertà di peccare e di propagare eresia. Israele non esisterebbe come Stato moderno, vivibile in un mare di nazioni in cui prevale violenza teocratica, se si fosse data una legislazione di tipo deuteronomico-talmudico, da ghetto preilluministico, invece di prendere il diritto dall’Europa occidentale e dalla costituzione americana.
Ateologia giuridica non è ateismo, certamente. La legge repubblicana (preferisco dirla a questo modo anziché laica, che si presta ad equivoci) non è ideologica né totalitaria: il suo albero di Giona protegge l’ateo e il neo pagano insieme al Giusto che non pone confini a Dio, il suo occhio veglia sulla moschea come sull’intangibilità di San Petronio, sulle riunioni di filosofi nel nome di Giordano Bruno come su ermetisti, rosicruciani, pentecostali, e perfino satanisti: gli concede di adorare il celebre Caprone a patto di non far male a una mosca, di non spiaccicare un ragnetto, di non sfiorare con una mala intenzione la fronte di un bambino...
La legge repubblicana non è indifferente. Si prende cura. Cancella dalle strade il burqa perché offensivo della verità umana, perché manifesta un controllo sadistico di altro sulla vita. Kemal l’Atatùrk non era un tenerino ma fu un redentore della Turchia, per aver imposto militarmente una legge repubblicana neogiacobina, liberatrice dalla legge islamica e dalle tonache dei preti, e sollevando le donne dalla tristezza luttuosa di ogni variante di velo. Adesso in Turchia c’è un regime che scende a compromessi con gli islamisti: e questo rischia di perderla, e di impedirne l’entrata in Europa.
(Ma poi, in fondo, non è «la stessa illusione mondo e mente» come canta un bel verso di Ungaretti?).
«La Stampa» del 9 febbraio 2010
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