L'autore di «Bianca come il latte» risponde all'accusa di «tradimento»
di Alessandro D'Avenia
Il mio è un romanzo: un luogo in cui la libertà dell’ispirazione ti conduce al cuore della realtà, partendo da un fatto. Come fanno tutti gli scrittori. C’è differenza fra i fatti e la realtà. La realtà è ciò che spiega i fatti e ne dà la chiave, la cifra, la combinazione. Inventiamo miti e trame per sottrarre al tempo la sua apparente mancanza di senso.
Andiamo al cinema e leggiamo libri per vivere la nostra vita in anticipo, per metterla alla prova senza farci troppo male. Ma se capita che invece quelle trame, quei miti raccontino— rinnovandolo in modo bruciante, come nel caso della madre di Irene — un dolore già realmente vissuto, questo non dipende in alcun modo dalla volontà dell’autore del libro che ci colpisce: è qualcosa che attiene al destino unico, e privatissimo, di ciascuno. Si accusa il sottoscritto di essersi ispirato a una storia vera. Questo capo d’accusa mette in discussione tutta la letteratura. Poi si accusa il romanzo di non avere avuto rispetto per la storia vera. Allora credo sia evidente che il romanzo non racconta quella storia. Non ho mai detto di aver voluto raccontare una storia vera, ho sempre affermato che il mio romanzo, cioè una storia inventata, è «ispirato» a un fatto, che mi è stato raccontato in un’unica ora di supplenza da ragazzi che non ho mai più rivisto. Questo fatto riguarda la morte. Per me quel fatto non è un fatto di cronaca su cui ricamare, per me quel fatto è il fatto della morte, nudo e crudo.
Il fatto della morte di un giovane— né il primo né l’ultimo, purtroppo. Ho cominciato a porre a quel fatto muto e oscuro tutte le mie domande: che senso ha quello che faccio ogni giorno se poi c’è la morte? E l’ho voluto fare dal punto di vista di chi queste domande le ha non solo nel cuore e nella mente, ma a fior di pelle: un adolescente. L’adolescente che io sono stato, che tutti siamo stati. Un adolescente come quelli con cui passo metà della mia vita e del quale, inevitabilmente, respiro le battaglie, i sogni, le sconfitte. Un adolescente che si scontra con un dolore che lo spezza, come è capitato anche a me. Quel dolore, inerte per tanti anni, si è risvegliato e mi ha costretto al faccia a faccia, come la Medusa greca. Il libro è il frutto di questo faccia a faccia. Perciò leggo e scrivo: i nudi fatti sono muti. Il cuore dello scrittore non si rassegna a questo rifugiandosi nell’immaginazione, ma sprofonda nelle sabbie mobili del fatto fino a trovare la roccia viva su cui costruire. Era il fatto della morte che io volevo guardare in faccia, per capire la realtà del morire, per capire se e perché vale la pena di vivere. Calvino scrive che il segreto per svincolarsi dall’inferno è trovare ciò che nell’inferno non è inferno, farlo durare e dargli spazio.
Così dopo tre anni di riflessione, scrivere la mia storia era diventato una necessità: ho scritto nottetempo o nei ritagli liberi dal lavoro. Mi sono tuffato nei miei personaggi come porta di accesso a quella realtà che cercavo, con tutte le domande, senza ometterne una, alla ricerca di quella verità narrativa, che non è una verità preconfezionata, da catechismo o da manuale d’istruzioni, ma una verità che ho scoperto scrivendo, vivendo. E così sono nati Leo, Beatrice, Silvia, il Sognatore e tutti gli altri personaggi. Ci sono fatti, ci sono milioni di fatti, ma non li sappiamo più leggere, non li vediamo più, perché i fatti sono muti. La realtà invece parla, forte e chiara, a chi la vuole ascoltare. Lo scrittore ha un cuore a forma di orecchio, con cui ascolta e strappa ai fatti della cronaca, destinati a passare come tutti noi, la loro essenza, la loro realtà, con la pretesa di coglierne l’universalità, di liberarli dalle lancette degli orologi. Per questo scrivo e insegno: per cogliere la bellezza ovunque essa sia, invisibile, nascosta, impaurita. Che io poi ci riesca è un altro discorso: giudicheranno i miei alunni l’operato di un professore che ci prova da dieci anni, giudicheranno i lettori il libro di un esordiente.
Andiamo al cinema e leggiamo libri per vivere la nostra vita in anticipo, per metterla alla prova senza farci troppo male. Ma se capita che invece quelle trame, quei miti raccontino— rinnovandolo in modo bruciante, come nel caso della madre di Irene — un dolore già realmente vissuto, questo non dipende in alcun modo dalla volontà dell’autore del libro che ci colpisce: è qualcosa che attiene al destino unico, e privatissimo, di ciascuno. Si accusa il sottoscritto di essersi ispirato a una storia vera. Questo capo d’accusa mette in discussione tutta la letteratura. Poi si accusa il romanzo di non avere avuto rispetto per la storia vera. Allora credo sia evidente che il romanzo non racconta quella storia. Non ho mai detto di aver voluto raccontare una storia vera, ho sempre affermato che il mio romanzo, cioè una storia inventata, è «ispirato» a un fatto, che mi è stato raccontato in un’unica ora di supplenza da ragazzi che non ho mai più rivisto. Questo fatto riguarda la morte. Per me quel fatto non è un fatto di cronaca su cui ricamare, per me quel fatto è il fatto della morte, nudo e crudo.
Il fatto della morte di un giovane— né il primo né l’ultimo, purtroppo. Ho cominciato a porre a quel fatto muto e oscuro tutte le mie domande: che senso ha quello che faccio ogni giorno se poi c’è la morte? E l’ho voluto fare dal punto di vista di chi queste domande le ha non solo nel cuore e nella mente, ma a fior di pelle: un adolescente. L’adolescente che io sono stato, che tutti siamo stati. Un adolescente come quelli con cui passo metà della mia vita e del quale, inevitabilmente, respiro le battaglie, i sogni, le sconfitte. Un adolescente che si scontra con un dolore che lo spezza, come è capitato anche a me. Quel dolore, inerte per tanti anni, si è risvegliato e mi ha costretto al faccia a faccia, come la Medusa greca. Il libro è il frutto di questo faccia a faccia. Perciò leggo e scrivo: i nudi fatti sono muti. Il cuore dello scrittore non si rassegna a questo rifugiandosi nell’immaginazione, ma sprofonda nelle sabbie mobili del fatto fino a trovare la roccia viva su cui costruire. Era il fatto della morte che io volevo guardare in faccia, per capire la realtà del morire, per capire se e perché vale la pena di vivere. Calvino scrive che il segreto per svincolarsi dall’inferno è trovare ciò che nell’inferno non è inferno, farlo durare e dargli spazio.
Così dopo tre anni di riflessione, scrivere la mia storia era diventato una necessità: ho scritto nottetempo o nei ritagli liberi dal lavoro. Mi sono tuffato nei miei personaggi come porta di accesso a quella realtà che cercavo, con tutte le domande, senza ometterne una, alla ricerca di quella verità narrativa, che non è una verità preconfezionata, da catechismo o da manuale d’istruzioni, ma una verità che ho scoperto scrivendo, vivendo. E così sono nati Leo, Beatrice, Silvia, il Sognatore e tutti gli altri personaggi. Ci sono fatti, ci sono milioni di fatti, ma non li sappiamo più leggere, non li vediamo più, perché i fatti sono muti. La realtà invece parla, forte e chiara, a chi la vuole ascoltare. Lo scrittore ha un cuore a forma di orecchio, con cui ascolta e strappa ai fatti della cronaca, destinati a passare come tutti noi, la loro essenza, la loro realtà, con la pretesa di coglierne l’universalità, di liberarli dalle lancette degli orologi. Per questo scrivo e insegno: per cogliere la bellezza ovunque essa sia, invisibile, nascosta, impaurita. Che io poi ci riesca è un altro discorso: giudicheranno i miei alunni l’operato di un professore che ci prova da dieci anni, giudicheranno i lettori il libro di un esordiente.
«Corriere della Sera» del 12 febbraio 2010
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