di Lucetta Scaraffia
Gli storici di professione ci hanno messo più di vent'anni - fra liti e accuse di cripto-fascismo - ad ammettere che il fascismo si fondava su un verso consenso popolare. Ma questa che oggi è considerata un'evidenza non è ancora giunta alle scuole: gli studenti, in stragrande maggioranza, rispondono che il fascismo è stato imposto con la forza agli italiani. Nel prossimo anno accademico, per cercare di far capire cosa è stato il fascismo, ai miei studenti farò leggere Canale Mussolini (Mondadori), il romanzo di Antonio Pennacchi. Una vera epopea del fascismo popolare, del fascismo contadino - sì, c'è stato un vero e spontaneo fascismo contadino! - che offre del Duce e di uno dei più importanti gerarchi, Rossoni, un'immagine ben diversa da quella ufficiale.
Il libro di Pennacchi fa capire benissimo il profondo legame che c'era e in qualche modo si è mantenuto fra socialismo e fascismo. Motivo per cui tanti socialisti sono diventati fascisti, convinti di non cambiare idea, ma di combattere per gli stessi obiettivi e con le stesse persone, grazie a un legame fatto di sentimenti rivoluzionari e di lotta di classe. Alla fine, i fascisti una rivoluzione l'hanno fatta, e un po' anche hanno sovvertito i rapporti di classe: con il primato della politica, le élite borghesi non hanno più contato nulla, e sono state sostituite nella gestione del potere da personaggi di origini popolari - come appunto il Rossoni, contadino di un poverissimo borgo del ferrarese, Tresigallo - e lo stesso Mussolini, abituato a mangiare al tavolo dei contadini, capace di aggiustare un erpice ripetendo i gesti del padre fabbro, e soprattutto di parlare (anche in dialetto) in modo da farsi capire da tutti.
La famiglia Peruzzi, una grande famiglia di mezzadri ferraresi che passa dal socialismo al fascismo, è la protagonista del romanzo: l'adesione al fascismo della prima ora (sette fratelli partecipano alla marcia su Roma) permette loro di sfuggire a un destino di fame nella pianura padana, e di realizzare la speranza di una terra propria nella bonifica delle paludi pontine. Ma consente anche, nei momenti di crisi, di trovare una soluzione, un appiglio: la militanza fascista, e soprattutto la conoscenza personale di Rossoni e del Duce, permettono ai Peruzzi di far sentire le proprie ragioni, di sfuggire a un destino di subordinazione totale a cui la collocazione sociale li avrebbe costretti. Il fascismo per loro è una forma di riscatto: per farsi ascoltare, un contadino si deve mettere la camicia nera, perfino per farsi ricevere dal Patriarca di Venezia a cui Pericle Peruzzi chiede che nell'agro pontino vengano mandati preti che parlino veneto come loro, come voleva sua madre.
I Peruzzi capiscono di non essere più socialisti quando, alla fine della Prima guerra mondiale, per due volte devono lottare per impedire che l'incendio doloso del pagliaio distrugga la loro cascina: sono i socialisti del luogo che l'hanno appiccato, perché i Peruzzi si sono rifiutati di assumere braccianti, come il partito imponeva.
Dopo aver subìto questi gesti di violenza, giovani contadini che portano i nomi significativi di Treves e Turati (come del resto le loro sorelle, Bissolata e Modigliana) diventano squadristi neri e seguono le sorti fasciste fino al '45. Poi, nelle paludi pontine prosciugate, il lavoro contadino viene premiato, la promessa della terra sembra farsi finalmente concreta, e lo straordinario spiegamento di risorse e di uomini deciso dal regime dà risultati immediati e tali da stupire tutti: l'organizzazione dei lavori e la sistemazione dei contadini veneti è così precisa e puntuale da costituire un'altra esperienza di conferma per la fede fascista dei Peruzzi. E anche il modo con cui si pone rimedio alle inevitabili disfunzioni - come i coloni che arrivano senza alcuna esperienza di vita contadina - immediatamente risolte con i corsi che li trasformeranno in provetti agricoltori, non fanno che rafforzare il punto di vista che hanno assunto per guardare il mondo, e per capire gli eventi storici in cui sono direttamente coinvolti, in genere come soldati. Le parti più interessanti del libro - dal punto di vista storico - sono proprio quelle in cui la voce narrante narra la storia dal punto di vista dei Peruzzi, come loro l'hanno capita e quindi raccontata alle generazioni successive. Una bella lezione sulle diversità di interpretazione, che non coinvolgono solo chi scrive libri, ma anche chi i fatti li vive.
Il libro di Pennacchi fa capire benissimo il profondo legame che c'era e in qualche modo si è mantenuto fra socialismo e fascismo. Motivo per cui tanti socialisti sono diventati fascisti, convinti di non cambiare idea, ma di combattere per gli stessi obiettivi e con le stesse persone, grazie a un legame fatto di sentimenti rivoluzionari e di lotta di classe. Alla fine, i fascisti una rivoluzione l'hanno fatta, e un po' anche hanno sovvertito i rapporti di classe: con il primato della politica, le élite borghesi non hanno più contato nulla, e sono state sostituite nella gestione del potere da personaggi di origini popolari - come appunto il Rossoni, contadino di un poverissimo borgo del ferrarese, Tresigallo - e lo stesso Mussolini, abituato a mangiare al tavolo dei contadini, capace di aggiustare un erpice ripetendo i gesti del padre fabbro, e soprattutto di parlare (anche in dialetto) in modo da farsi capire da tutti.
La famiglia Peruzzi, una grande famiglia di mezzadri ferraresi che passa dal socialismo al fascismo, è la protagonista del romanzo: l'adesione al fascismo della prima ora (sette fratelli partecipano alla marcia su Roma) permette loro di sfuggire a un destino di fame nella pianura padana, e di realizzare la speranza di una terra propria nella bonifica delle paludi pontine. Ma consente anche, nei momenti di crisi, di trovare una soluzione, un appiglio: la militanza fascista, e soprattutto la conoscenza personale di Rossoni e del Duce, permettono ai Peruzzi di far sentire le proprie ragioni, di sfuggire a un destino di subordinazione totale a cui la collocazione sociale li avrebbe costretti. Il fascismo per loro è una forma di riscatto: per farsi ascoltare, un contadino si deve mettere la camicia nera, perfino per farsi ricevere dal Patriarca di Venezia a cui Pericle Peruzzi chiede che nell'agro pontino vengano mandati preti che parlino veneto come loro, come voleva sua madre.
I Peruzzi capiscono di non essere più socialisti quando, alla fine della Prima guerra mondiale, per due volte devono lottare per impedire che l'incendio doloso del pagliaio distrugga la loro cascina: sono i socialisti del luogo che l'hanno appiccato, perché i Peruzzi si sono rifiutati di assumere braccianti, come il partito imponeva.
Dopo aver subìto questi gesti di violenza, giovani contadini che portano i nomi significativi di Treves e Turati (come del resto le loro sorelle, Bissolata e Modigliana) diventano squadristi neri e seguono le sorti fasciste fino al '45. Poi, nelle paludi pontine prosciugate, il lavoro contadino viene premiato, la promessa della terra sembra farsi finalmente concreta, e lo straordinario spiegamento di risorse e di uomini deciso dal regime dà risultati immediati e tali da stupire tutti: l'organizzazione dei lavori e la sistemazione dei contadini veneti è così precisa e puntuale da costituire un'altra esperienza di conferma per la fede fascista dei Peruzzi. E anche il modo con cui si pone rimedio alle inevitabili disfunzioni - come i coloni che arrivano senza alcuna esperienza di vita contadina - immediatamente risolte con i corsi che li trasformeranno in provetti agricoltori, non fanno che rafforzare il punto di vista che hanno assunto per guardare il mondo, e per capire gli eventi storici in cui sono direttamente coinvolti, in genere come soldati. Le parti più interessanti del libro - dal punto di vista storico - sono proprio quelle in cui la voce narrante narra la storia dal punto di vista dei Peruzzi, come loro l'hanno capita e quindi raccontata alle generazioni successive. Una bella lezione sulle diversità di interpretazione, che non coinvolgono solo chi scrive libri, ma anche chi i fatti li vive.
«Il Foglio» del 20 giugno 2010
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