di Roberto Mussapi
Non si tratta qui degli omicidi estivi, peraltro d’'agosto', secondo la statistica e la letteratura della cronaca nera. Né ci occupiamo di casi di maniaci, che non hanno stagione, anche se certo il caldo non giova alle menti esaltabili. Ma di una impressionante sequela di delitti negli ultimi giorni, che presentano caratteristiche comuni: un uomo uccide una donna, non in una lite esplosa improvvisamente in casa o al bar, ma in un luogo preciso dove con lei si è recato. La uccide quindi con una certa premeditazione, o comunque con un piano preciso. La causa di tale delitto è il fatto di essere stato lasciato, o messo in discussione.
La donna lo ha abbandonato o, probabilmente preoccupata dal suo carattere, ha proposto una 'pausa di riflessione' Con questa perifrasi si definisce il disperato tentativo di fuga da una situazione coatta da parte di chi non ha la libertà di andarsene tranquillamente. Chi vive un rapporto onesto, anche se in crisi, non ha bisogno di proporre pause di riflessione. Sta già riflettendo, come il suo partner. Parla e discute. Soffre e fa soffrire, ma va avanti anche così; l’amore contempla anche la possibilità di queste situazioni di crisi. Pare che la cautela della 'pausa di riflessione' non serva comunque, venga punita, come l’abbandono esplicito, con la morte. Si tratta di pochi episodi, ovviamente, ma inquietanti per le affinità che li legano. Sarei sciocco se pretendessi di poter offrire una spiegazione certa e definitiva, ma ho in tal materia sensazioni forti: la donna, che lavora come l’uomo, che come lui paga il mutuo e si sposta in automobile, di cui paga le rate e l’assicurazione, gli è, in Italia, pari, da tempo.
Non da molto tempo, ma nemmeno da ieri.
Poiché lavora e paga le rate anche lei, ha le sue amiche, i colleghi, i problemi di lavoro. Ciò è inevitabile. Per molti maschi italiani (dico italiani solo perché mi riferisco alla nostra realtà), questo è molto, è al limite. Bisogna digerirne l’autonomia, digerirla abbozzando.
Ma la collera cresce, rancorosa. Se la donna decide anche di tagliare, di recidere, allora ha superato il limite. La si ammazza. La donna è sottomessa da sempre, nella storia nota come tale, in quasi tutte culture conosciute: il matriarcato esiste ma risale al tempo del mito, ci sono eccezioni storiche di donne libere e dominanti come i certe parti dell’attuale Nigeria fino all’avvento del colonialismo, ma sono briciole. Dalla Cina dei fasti imperiali alla Grecia, modello di arte, filosofia e metafisica, dal Medio Evo europeo alla società elisabettiana, la donna è umiliata, da Oriente a Occidente. Con differenze fondamentali: in Occidente si affranca giorno su giorno, altrove in modo diverso, nel mondo islamico vedo la situazione un po’ dura. Ma nel fondo l’aspetto maschilista del maschio (quello che lo fa prepotente, impedendogli di essere uomo) alligna e a volte, per fortuna non sempre, emerge. Hanno tirato troppo la corda, adesso decidono anche se e quando lasciarci, allora pagano. Pagano qualcosa che molti maschi non avevano accettato ab origine.
Se a questa triste realtà di una parte (non dominante) del mondo e dell’essere maschile si aggiunge che in questi tristi tempi è segno di potere e ricchezza, quindi di valore, esibire il possesso di molte donne, belle e vistose (cosa che un tempo si attribuiva agli sceicchi dei rotocalchi rosa), il cerchio si chiude. Se molte donne usano la loro avvenenza per proporsi in televisione come prede, la torta riceva la sua perfetta ciliegina. E le donne, le povere donne, continuano a esser vittime. Non solo di chi le uccide, ma anche di chi vede con insofferenza e peggio ancora con ironia la loro volontà di farsi rispettare. Di quel rispetto senza il quale l’amore è malconverso per definizione, è infatuazione, capriccio, volontà di possesso, non amore. Non credo siano delitti casuali, quelli di questi giorni. Credo siano prova di un disprezzo e disamore che la donna deve ancora subire. E sono millenni che ci perdona.
La donna lo ha abbandonato o, probabilmente preoccupata dal suo carattere, ha proposto una 'pausa di riflessione' Con questa perifrasi si definisce il disperato tentativo di fuga da una situazione coatta da parte di chi non ha la libertà di andarsene tranquillamente. Chi vive un rapporto onesto, anche se in crisi, non ha bisogno di proporre pause di riflessione. Sta già riflettendo, come il suo partner. Parla e discute. Soffre e fa soffrire, ma va avanti anche così; l’amore contempla anche la possibilità di queste situazioni di crisi. Pare che la cautela della 'pausa di riflessione' non serva comunque, venga punita, come l’abbandono esplicito, con la morte. Si tratta di pochi episodi, ovviamente, ma inquietanti per le affinità che li legano. Sarei sciocco se pretendessi di poter offrire una spiegazione certa e definitiva, ma ho in tal materia sensazioni forti: la donna, che lavora come l’uomo, che come lui paga il mutuo e si sposta in automobile, di cui paga le rate e l’assicurazione, gli è, in Italia, pari, da tempo.
Non da molto tempo, ma nemmeno da ieri.
Poiché lavora e paga le rate anche lei, ha le sue amiche, i colleghi, i problemi di lavoro. Ciò è inevitabile. Per molti maschi italiani (dico italiani solo perché mi riferisco alla nostra realtà), questo è molto, è al limite. Bisogna digerirne l’autonomia, digerirla abbozzando.
Ma la collera cresce, rancorosa. Se la donna decide anche di tagliare, di recidere, allora ha superato il limite. La si ammazza. La donna è sottomessa da sempre, nella storia nota come tale, in quasi tutte culture conosciute: il matriarcato esiste ma risale al tempo del mito, ci sono eccezioni storiche di donne libere e dominanti come i certe parti dell’attuale Nigeria fino all’avvento del colonialismo, ma sono briciole. Dalla Cina dei fasti imperiali alla Grecia, modello di arte, filosofia e metafisica, dal Medio Evo europeo alla società elisabettiana, la donna è umiliata, da Oriente a Occidente. Con differenze fondamentali: in Occidente si affranca giorno su giorno, altrove in modo diverso, nel mondo islamico vedo la situazione un po’ dura. Ma nel fondo l’aspetto maschilista del maschio (quello che lo fa prepotente, impedendogli di essere uomo) alligna e a volte, per fortuna non sempre, emerge. Hanno tirato troppo la corda, adesso decidono anche se e quando lasciarci, allora pagano. Pagano qualcosa che molti maschi non avevano accettato ab origine.
Se a questa triste realtà di una parte (non dominante) del mondo e dell’essere maschile si aggiunge che in questi tristi tempi è segno di potere e ricchezza, quindi di valore, esibire il possesso di molte donne, belle e vistose (cosa che un tempo si attribuiva agli sceicchi dei rotocalchi rosa), il cerchio si chiude. Se molte donne usano la loro avvenenza per proporsi in televisione come prede, la torta riceva la sua perfetta ciliegina. E le donne, le povere donne, continuano a esser vittime. Non solo di chi le uccide, ma anche di chi vede con insofferenza e peggio ancora con ironia la loro volontà di farsi rispettare. Di quel rispetto senza il quale l’amore è malconverso per definizione, è infatuazione, capriccio, volontà di possesso, non amore. Non credo siano delitti casuali, quelli di questi giorni. Credo siano prova di un disprezzo e disamore che la donna deve ancora subire. E sono millenni che ci perdona.
«Avvenire» del 13 luglio 2010
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