Il grande storico del fascismo indagò anche gli Anni di piombo, dai primi moti di piazza all’omicidio di Moro
di Paolo Simoncelli
L’ultimo fascicolo della rivista 'Ventunesimo secolo' è dedicata ad alcuni importanti intellettuali italiani di fronte al (non mitico) ’68; iniziativa di rilievo, anzi da sviluppare considerando che accanto a Rosario Assunto e don Giussani, Del Noce, Chiaromonte e altri, rimangono fuori dall’analisi intellettuali di altrettanto rilievo, da Cotta a Cassandro, da Saitta a Romeo, da Spirito a Paratore che altrove dunque meriteranno attenzione. Il saggio pubblicato da Giuseppe Parlato su De Felice, il Sessantotto e la difesa dello Stato di diritto offre molto più di quanto promesso dal titolo: spinge infatti l’analisi fino all’indomani della morte di Moro configurando con ciò un tratto notevole del percorso politico-culturale del maggior storico italiano del dopoguerra. Oltretutto Parlato non si affidòa alla testimonianza personale, ma problematizza la ricostruzione con risultati che meritano una breve discussione. Intanto De Felice nel ’68 è appena entrato nei ruoli universitari, fresco vincitore del concorso alla cattedra di Storia contemporanea che inizierà a insegnare a Salerno prima della chiamata a Roma. Ha già alle spalle studi sul giacobinismo, sugli ebrei durante il fascismo e i primi tre volumi della biografia di Mussolini; sta lavorando al quarto che, dedicato agli 'anni del consenso', gli farà subire ogni tipo di polemica; ha iniziato proprio dal settembre ’68 a collaborare al 'Corriere della Sera' diretto da Spadolini (impegno che abbandonerà tre anni dopo al momento della 'virata a sinistra' del quotidiano con la nuova direzione di Ottone). È dunque una vittima predestinata dell’aggressione culturale (e non solo), in un contesto in cui la categoria 'fascismo' non era storicizzata, ma indicava tutto ciò che non solo non fosse rivoluzionario ma comportasse la difesa della legalità, iniziative riformistiche ecc.
Il richiamo di De Felice all’analisi storica interna al fascismo (con componenti di sinistra!) e a considerarlo un fenomeno storico concluso era dunque considerato un camuffamento per riabilitarlo e riproporlo.
Nel 1972, il cinquantenario della Marcia su Roma induceva a tautologici paragoni col presente, cui De Felice opponeva invece analogie dei sessantottini con la sinistra nazista, antiweimariana, antiparlamentare, all’insegna di quel 'nichilismo rivoluzionario' su cui andava allora riflettendo Del Noce (già all’attenzione di De Felice fin dalle sue prime analisi del fascismo). Questo vuoto di idee colto in quelle confuse chimere extraparlamentari (senza forse leggervi il portato sia pur approssimativo di Marcuse) viene collegato da De Felice alla fine della cultura storicista e all’invasione della sociologia angloamericana che avrebbe avuto effetti nefasti nel panorama intellettuale italiano. È da qui che l’analisi di Parlato affronta il seguito politico della posizione di De Felice, uscito dal Pci nel ’56 e da allora al lavoro in redazioni di riviste sia della sinistra cattolica che laicosocialiste.
Un passato personale che gli offre la soluzione: esclusione di qualsiasi ruolo parlamentare del Msi (nelle sue varie versioni da Michelini ad Almirante a Rauti), rifiuto di affidare al Pci quel ruolo supplente dello Stato come già fatto nel ’22 col fascismo (con l’aggravante di ritenere lo Stato, nel ’77, molto più debole che nel ’22); necessità dunque di un fronte laico-cattolico a difesa della legalità e dello Stato di diritto, col conseguente, positivo interesse per il nuovo Psi di Craxi. Capisaldi chiari da cui derivavano piccole ma non irrilevanti conseguenze, come la voce di un suo voto contrario al divorzio per evitare che quel referendum divenisse strumento fittiziamente utile al compromesso storico, o la battuta sui suoi timori per una politica culturale gestita da un Tranfaglia (non da un Amendola), oltre che le sue adesioni a manifesti per la libertà della cultura minacciata dalla violenza non meno che dall’egemonia comunista, ecc.
Questa attenta ricostruzione del suo percorso politico induce ad alcune domande: De Felice che aveva attribuito al Pci la corresponsabilità dello sfascio politico-sociale per proporsi poi come partito d’ordine, non riteneva cattolici e laici (in particolare i socialisti) correi nella diserzione dalla legalità? La positiva attenzione al Psi di Craxi non subì variazioni durante il sequestro di Moro, quando sembrò tracollare quel che rimaneva dello Stato di diritto? Interrogativo capace di contraddire il sacrosanto principio della difesa della legalità che lascia il 'no' nei margini ambigui della deduttività. Comunque proprio il terrorismo, già prima della morte di Moro, aveva portato De Felice a specifiche analisi sul problema nel decennio 1968-78. Se diversi gli apparivano i contesti del terrorismo in Italia e Germania (diffuso e con diffuse simpatie in Italia; socialmente isolato e contrastato in Germania), questi due Stati, col Giappone, erano parimenti i tre che avevano perso la guerra, e che avevano introiettato una 'frustrazione' capace di ogni credibilità complottista (internazionale e multinazionale). Forse qui De Felice trascurava che di comune c’era piuttosto la morte dello Stato nazionale, vero sconfitto dell’ultima guerra; e che le organizzazioni internazionali sorte e sviluppatesi nel dopoguerra avevano determinato quell’abrasione della cultura storicista in nome di una diffusa socio-politologia che doveva recidere radici ideologiche e specificità culturali-nazionali, ben oltre il ’68. E questo spiega, a maggior ragione per la cultura politica italiana sempre distante dalla 'nazione', quella 'quarta cultura' ben letta in De Felice da Parlato, della fuga delle generazioni successive dalle istituzioni e dallo Stato, quel rifugio familistico e privato frutto di scetticismo e indifferenza (più che di rassegnazione), ma che è pure un evidente marcar le distanze da ciò che è stato proposto dopo lo Stato nazionale.
Torniamo dunque a De Sanctis: siamo proprio un popolo scettico e politicamente miscredente?
Il richiamo di De Felice all’analisi storica interna al fascismo (con componenti di sinistra!) e a considerarlo un fenomeno storico concluso era dunque considerato un camuffamento per riabilitarlo e riproporlo.
Nel 1972, il cinquantenario della Marcia su Roma induceva a tautologici paragoni col presente, cui De Felice opponeva invece analogie dei sessantottini con la sinistra nazista, antiweimariana, antiparlamentare, all’insegna di quel 'nichilismo rivoluzionario' su cui andava allora riflettendo Del Noce (già all’attenzione di De Felice fin dalle sue prime analisi del fascismo). Questo vuoto di idee colto in quelle confuse chimere extraparlamentari (senza forse leggervi il portato sia pur approssimativo di Marcuse) viene collegato da De Felice alla fine della cultura storicista e all’invasione della sociologia angloamericana che avrebbe avuto effetti nefasti nel panorama intellettuale italiano. È da qui che l’analisi di Parlato affronta il seguito politico della posizione di De Felice, uscito dal Pci nel ’56 e da allora al lavoro in redazioni di riviste sia della sinistra cattolica che laicosocialiste.
Un passato personale che gli offre la soluzione: esclusione di qualsiasi ruolo parlamentare del Msi (nelle sue varie versioni da Michelini ad Almirante a Rauti), rifiuto di affidare al Pci quel ruolo supplente dello Stato come già fatto nel ’22 col fascismo (con l’aggravante di ritenere lo Stato, nel ’77, molto più debole che nel ’22); necessità dunque di un fronte laico-cattolico a difesa della legalità e dello Stato di diritto, col conseguente, positivo interesse per il nuovo Psi di Craxi. Capisaldi chiari da cui derivavano piccole ma non irrilevanti conseguenze, come la voce di un suo voto contrario al divorzio per evitare che quel referendum divenisse strumento fittiziamente utile al compromesso storico, o la battuta sui suoi timori per una politica culturale gestita da un Tranfaglia (non da un Amendola), oltre che le sue adesioni a manifesti per la libertà della cultura minacciata dalla violenza non meno che dall’egemonia comunista, ecc.
Questa attenta ricostruzione del suo percorso politico induce ad alcune domande: De Felice che aveva attribuito al Pci la corresponsabilità dello sfascio politico-sociale per proporsi poi come partito d’ordine, non riteneva cattolici e laici (in particolare i socialisti) correi nella diserzione dalla legalità? La positiva attenzione al Psi di Craxi non subì variazioni durante il sequestro di Moro, quando sembrò tracollare quel che rimaneva dello Stato di diritto? Interrogativo capace di contraddire il sacrosanto principio della difesa della legalità che lascia il 'no' nei margini ambigui della deduttività. Comunque proprio il terrorismo, già prima della morte di Moro, aveva portato De Felice a specifiche analisi sul problema nel decennio 1968-78. Se diversi gli apparivano i contesti del terrorismo in Italia e Germania (diffuso e con diffuse simpatie in Italia; socialmente isolato e contrastato in Germania), questi due Stati, col Giappone, erano parimenti i tre che avevano perso la guerra, e che avevano introiettato una 'frustrazione' capace di ogni credibilità complottista (internazionale e multinazionale). Forse qui De Felice trascurava che di comune c’era piuttosto la morte dello Stato nazionale, vero sconfitto dell’ultima guerra; e che le organizzazioni internazionali sorte e sviluppatesi nel dopoguerra avevano determinato quell’abrasione della cultura storicista in nome di una diffusa socio-politologia che doveva recidere radici ideologiche e specificità culturali-nazionali, ben oltre il ’68. E questo spiega, a maggior ragione per la cultura politica italiana sempre distante dalla 'nazione', quella 'quarta cultura' ben letta in De Felice da Parlato, della fuga delle generazioni successive dalle istituzioni e dallo Stato, quel rifugio familistico e privato frutto di scetticismo e indifferenza (più che di rassegnazione), ma che è pure un evidente marcar le distanze da ciò che è stato proposto dopo lo Stato nazionale.
Torniamo dunque a De Sanctis: siamo proprio un popolo scettico e politicamente miscredente?
Macché antifascisti: i sessantottini assomigliavano piuttosto ai nazisti della prima ora, i «nichilisti rivoluzionari» contro il parlamentarismo
«Avvenire del 23 luglio 2010
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