L’Unione sembra avviata a far la fine della Scandinavia: un buon posto dove vivere, ma che ormai non conta nulla sullo scenario internazionale. Colpa della miopia degli Stati membri, incapaci di slanci e tutti tesi al proprio «particulare». Almeno fino alla prossima generazione
di Edoardo Castagna
Nel mondo globalizzato del XXI secolo l’Europa è avviata a diventare quello che la Scandinavia è stata per la stessa Europa nel XX: un posto dove si vive bene, ricco di antica ricchezza, pieno di bellezze paesaggistiche e artistiche, invidiabile per servizi e sicurezza. Ma che non conta assolutamente nulla.
Un declino misurabile dati alla mano: quello del prodotto interno lordo, innanzitutto. Un indicatore economico non impeccabile, ma che comunque l’idea la rende: nel 1820, dopo la prima Rivoluzione industriale, l’Europa produceva oltre un quarto della ricchezza mondiale (26,5%) – ed era appena uscita dai vent’anni di devastazione portati dalle guerre napoleoniche. Dalla fine dell’Ottocento alla Grande guerra, poi, la quota di benessere generata dal Vecchio continente era arrivata a superare il 37% del totale mondiale (37,1% nel 1870, 37,4% nel 1914). Era il periodo dell’eurocentrismo più assoluto, del totale dominio sul mondo intero; l’Europa, il soggetto e il motore della storia. Poi è iniziato, inesorabile, il declino: prima per l’ascesa degli Stati Uniti, poi del Giappone, oggi della Cina e dei tanti altri Paesi emergenti. Così ormai nel 2010 la ricchezza europea rappresenta poco più di un quinto del totale mondiale (20,64%), e la quota continua a calare. Ancor più marcati sono i dati relativi alla percentuale di popolazione europea nel mondo: se nel 1750 un essere umano su cinque (20,6%) era nato sul suolo del Vecchio continente, e se nel 1900 si era toccato il massimo storico con uno su quattro (24,7%), oggi siamo precipitati a uno su dieci. E la tendenza, prospettata dalle Nazioni unite, continua a vederci sempre meno rilevanti: rispetto all’intera popolazione umana, gli europei saranno il 7% nel 2050, e addirittura il 5,3%, uno su venti, nel 2150. Immigrati inclusi, per di più. E intanto cresce la quota dei debiti pubblici Ue in mano a Paesi extraeuropei, così come quella delle partecipazioni societarie; ultimo, significativo esempio, il passaggio della Volvo prima in mani americane (1999), e infine in quelle dei cinesi della Geely (2010).
Al di là degli indicatori economici, tuttavia, il problema è soprattutto culturale: l’Europa ha perso un ruolo centrale, perché è troppo piccola e troppo divisa, e al tempo stesso perché non riesce a rendersene conto, condannando di fatto se stessa all’irrilevanza. Il Trattato di Maastricht, con la decisione di passare dalla Cee alla Ue e di introdurre l’euro (1992), è stato una grande fuga in avanti, quasi utopica, scattata sull’onda dell’entusiasmo generato dalla caduta del Muro e della riunificazione tedesca – ma anche, più prosaicamente, della paura francese per un rinnovato strapotere tedesco. Se gli anni Novanta, baciati da un ciclo insolitamente lungo di crescita economica, avevano lasciato galleggiare l’illusione che ormai l’Europa fosse definitivamente avviata verso quella coesione che sola avrebbe potuto farne un’attiva protagonista del nuovo millennio globalizzato, i primi scricchiolii degli anni Duemila sono bastati a smascherare il bluff. E a far riemergere, prepotenti, i meschini egoismi nazionalistici degli (ex) Grandi d’Europa. A partire dalla Germania, sedicente 'locomotiva' dell’Unione. La reazione di Berlino alla crisi finanziaria degli ultimi mesi è stata per molti aspetti sconcertante, con l’ostinato rifiuto a porgere un aiuto ai Paesi più in difficoltà. È riaffiorata immediatamente la storica percezione che i tedeschi hanno di sé – da Lutero in giù – come dei primi della classe che lavorano sodo, che eccellono in ogni campo, e ai quali tutti i cattivi compagni di banco cercano con ogni sotterfugio di rubare la merenda tanto onestamente guadagnata. È stato imbarazzante per l’intera Europa il fatto che per convincere Angela Merkel ad aiutare la Grecia abbia dovuto arrivare la telefonata di Obama – e infatti perfino il settimanale principe d’oltreoceano, il 'Time', è arrivato a dedicare la copertina all’inquietante prospettiva di un mappamondo senza Europa. Ma sarebbe errato imputare la fragilità dell’Unione europea, che la condanna all’insignificanza politica, alle testardaggini tedesche. Le logiche – e i tic – nazionali sono tornati a farla da padrone un po’ ovunque. Tra i francesi, ancora convinti di essere una grande potenza perché hanno la bomba atomica – una bomba che negli ultimi sessant’anni ha fatto paura soltanto a qualche pesce in Polinesia – e ancora convinti che l’aver avuto Voltaire e Rousseau tre secoli fa faccia di ogni intellettuale francese un Voltaire o un Rousseau. O tra gli inglesi: poiché condividono la stessa lingua con gli Stati Uniti, s’illudono di condividerne anche la potenza globale. Così restano in un limbo, senza decidere se essere un membro effettivo dell’Unione europea o il cinquantunesimo Stato Usa; pienamente in Europa, la Gran Bretagna continua a far finta di essere altrove, all’eterna insegna di quel leggendario titolo giornalistico: «Nebbia sulla Manica, Continente isolato». Quanto a noi, in Italia e negli altri Paesi dell’area mediterranea, l’Europa è stata negli ultimi anni soprattutto un artificio retorico – «Per entrare in Europa dobbiamo...», «Per restare in Europa siamo costretti a...» –, utilizzato per meri fini di politica interna. Senza nessun reale slancio europeista, ma tutti concentrati sull’utile ombrello dell’euro, che ha risolto i pluridecennali problemi di svalutazione e di inflazione dell’Italia, e sulla greppia dei fondi di sviluppo, che tanto ha giovato alla Spagna. A Est sono invece combattuti – Polonia e Repubblica Ceca capofila – tra la gola per questi stessi fondi e la gran voglia di essere indipendenti, dopo i decenni di dominio sovietico.
In gran parte, il problema è generazionale. I cinquantenni (e i sessantenni e i settantenni...) oggi al potere sono convinti che l’Europa attuale, quella della moneta unica e del Trattato di Schengen che consente la libera circolazione di persone e merci tra i Paesi dell’Unione, sia una conquista. Bisognerà attendere la cosiddetta Generazione Erasmus per capire che invece è solo un punto di partenza. Per questi, oggi ancora giovani, euro e libera circolazione sono il minimo sindacale, un fatto scontato che non merita nemmeno di essere rilevato. Da loro, forse, ci si potrà attendere finalmente un passo oltre, verso quella Confederazione d’Europa che sola potrà fare dell’Europa nel suo complesso un qualcosa che conti sul piano mondiale. Oggi ogni Stato europeo, anche i più grossi e ricchi come Francia, Italia, Gran Bretagna o Germania, sullo scenario globale non possono incidere, perché di fronte a chi ha davvero le dimensioni giuste per essere attore sullo scenario globalizzato – Stati Uniti, India, Cina, e sempre più Messico, Brasile, Russia.... – restano e resteranno comunque troppo piccoli. Irrilevanti: come la Scandinavia, appunto. E, come la Scandinavia al tempo della Guerra fredda, esposti al rischio della finlandizzazione, di una sovranità limitata alla liberà di gestirsi al proprio interno come meglio aggrada – cioè badando al benessere – ma senza poter fare una vera politica estera.
L’Europa dell’Unione incompiuta resta al guinzaglio: della Russia, che detiene le materie prime; degli Stati Uniti, che detengono il potere militare; di tutti insieme – Russia, Stati Uniti, Paesi arabi, Cina –, che hanno le chiavi della cassa. In queste condizioni si può ancora vivere bene, per un discreto periodo: ma poi il declino arriva inevitabilmente, in un’area del mondo che non è più attiva e propulsiva ma soltanto passiva, spettatrice dei processi mondiali ai quali si accoda.
Per evitarlo occorrerebbe avere classi dirigenti che smettano di pensare in termini di Italia, Francia o Spagna e inizino a ragionare davvero in termini di Europa. Invece, siamo ancora fermi a un punto in cui nemmeno l’essenziale fondo europeo per il sostegno alla Grecia e agli altri Paesi in crisi riesce a partire. La Germania, grazie a Obama, si è decisa; ma tutto resta ancora fermo. Manca il sì della Slovacchia.
Un declino misurabile dati alla mano: quello del prodotto interno lordo, innanzitutto. Un indicatore economico non impeccabile, ma che comunque l’idea la rende: nel 1820, dopo la prima Rivoluzione industriale, l’Europa produceva oltre un quarto della ricchezza mondiale (26,5%) – ed era appena uscita dai vent’anni di devastazione portati dalle guerre napoleoniche. Dalla fine dell’Ottocento alla Grande guerra, poi, la quota di benessere generata dal Vecchio continente era arrivata a superare il 37% del totale mondiale (37,1% nel 1870, 37,4% nel 1914). Era il periodo dell’eurocentrismo più assoluto, del totale dominio sul mondo intero; l’Europa, il soggetto e il motore della storia. Poi è iniziato, inesorabile, il declino: prima per l’ascesa degli Stati Uniti, poi del Giappone, oggi della Cina e dei tanti altri Paesi emergenti. Così ormai nel 2010 la ricchezza europea rappresenta poco più di un quinto del totale mondiale (20,64%), e la quota continua a calare. Ancor più marcati sono i dati relativi alla percentuale di popolazione europea nel mondo: se nel 1750 un essere umano su cinque (20,6%) era nato sul suolo del Vecchio continente, e se nel 1900 si era toccato il massimo storico con uno su quattro (24,7%), oggi siamo precipitati a uno su dieci. E la tendenza, prospettata dalle Nazioni unite, continua a vederci sempre meno rilevanti: rispetto all’intera popolazione umana, gli europei saranno il 7% nel 2050, e addirittura il 5,3%, uno su venti, nel 2150. Immigrati inclusi, per di più. E intanto cresce la quota dei debiti pubblici Ue in mano a Paesi extraeuropei, così come quella delle partecipazioni societarie; ultimo, significativo esempio, il passaggio della Volvo prima in mani americane (1999), e infine in quelle dei cinesi della Geely (2010).
Al di là degli indicatori economici, tuttavia, il problema è soprattutto culturale: l’Europa ha perso un ruolo centrale, perché è troppo piccola e troppo divisa, e al tempo stesso perché non riesce a rendersene conto, condannando di fatto se stessa all’irrilevanza. Il Trattato di Maastricht, con la decisione di passare dalla Cee alla Ue e di introdurre l’euro (1992), è stato una grande fuga in avanti, quasi utopica, scattata sull’onda dell’entusiasmo generato dalla caduta del Muro e della riunificazione tedesca – ma anche, più prosaicamente, della paura francese per un rinnovato strapotere tedesco. Se gli anni Novanta, baciati da un ciclo insolitamente lungo di crescita economica, avevano lasciato galleggiare l’illusione che ormai l’Europa fosse definitivamente avviata verso quella coesione che sola avrebbe potuto farne un’attiva protagonista del nuovo millennio globalizzato, i primi scricchiolii degli anni Duemila sono bastati a smascherare il bluff. E a far riemergere, prepotenti, i meschini egoismi nazionalistici degli (ex) Grandi d’Europa. A partire dalla Germania, sedicente 'locomotiva' dell’Unione. La reazione di Berlino alla crisi finanziaria degli ultimi mesi è stata per molti aspetti sconcertante, con l’ostinato rifiuto a porgere un aiuto ai Paesi più in difficoltà. È riaffiorata immediatamente la storica percezione che i tedeschi hanno di sé – da Lutero in giù – come dei primi della classe che lavorano sodo, che eccellono in ogni campo, e ai quali tutti i cattivi compagni di banco cercano con ogni sotterfugio di rubare la merenda tanto onestamente guadagnata. È stato imbarazzante per l’intera Europa il fatto che per convincere Angela Merkel ad aiutare la Grecia abbia dovuto arrivare la telefonata di Obama – e infatti perfino il settimanale principe d’oltreoceano, il 'Time', è arrivato a dedicare la copertina all’inquietante prospettiva di un mappamondo senza Europa. Ma sarebbe errato imputare la fragilità dell’Unione europea, che la condanna all’insignificanza politica, alle testardaggini tedesche. Le logiche – e i tic – nazionali sono tornati a farla da padrone un po’ ovunque. Tra i francesi, ancora convinti di essere una grande potenza perché hanno la bomba atomica – una bomba che negli ultimi sessant’anni ha fatto paura soltanto a qualche pesce in Polinesia – e ancora convinti che l’aver avuto Voltaire e Rousseau tre secoli fa faccia di ogni intellettuale francese un Voltaire o un Rousseau. O tra gli inglesi: poiché condividono la stessa lingua con gli Stati Uniti, s’illudono di condividerne anche la potenza globale. Così restano in un limbo, senza decidere se essere un membro effettivo dell’Unione europea o il cinquantunesimo Stato Usa; pienamente in Europa, la Gran Bretagna continua a far finta di essere altrove, all’eterna insegna di quel leggendario titolo giornalistico: «Nebbia sulla Manica, Continente isolato». Quanto a noi, in Italia e negli altri Paesi dell’area mediterranea, l’Europa è stata negli ultimi anni soprattutto un artificio retorico – «Per entrare in Europa dobbiamo...», «Per restare in Europa siamo costretti a...» –, utilizzato per meri fini di politica interna. Senza nessun reale slancio europeista, ma tutti concentrati sull’utile ombrello dell’euro, che ha risolto i pluridecennali problemi di svalutazione e di inflazione dell’Italia, e sulla greppia dei fondi di sviluppo, che tanto ha giovato alla Spagna. A Est sono invece combattuti – Polonia e Repubblica Ceca capofila – tra la gola per questi stessi fondi e la gran voglia di essere indipendenti, dopo i decenni di dominio sovietico.
In gran parte, il problema è generazionale. I cinquantenni (e i sessantenni e i settantenni...) oggi al potere sono convinti che l’Europa attuale, quella della moneta unica e del Trattato di Schengen che consente la libera circolazione di persone e merci tra i Paesi dell’Unione, sia una conquista. Bisognerà attendere la cosiddetta Generazione Erasmus per capire che invece è solo un punto di partenza. Per questi, oggi ancora giovani, euro e libera circolazione sono il minimo sindacale, un fatto scontato che non merita nemmeno di essere rilevato. Da loro, forse, ci si potrà attendere finalmente un passo oltre, verso quella Confederazione d’Europa che sola potrà fare dell’Europa nel suo complesso un qualcosa che conti sul piano mondiale. Oggi ogni Stato europeo, anche i più grossi e ricchi come Francia, Italia, Gran Bretagna o Germania, sullo scenario globale non possono incidere, perché di fronte a chi ha davvero le dimensioni giuste per essere attore sullo scenario globalizzato – Stati Uniti, India, Cina, e sempre più Messico, Brasile, Russia.... – restano e resteranno comunque troppo piccoli. Irrilevanti: come la Scandinavia, appunto. E, come la Scandinavia al tempo della Guerra fredda, esposti al rischio della finlandizzazione, di una sovranità limitata alla liberà di gestirsi al proprio interno come meglio aggrada – cioè badando al benessere – ma senza poter fare una vera politica estera.
L’Europa dell’Unione incompiuta resta al guinzaglio: della Russia, che detiene le materie prime; degli Stati Uniti, che detengono il potere militare; di tutti insieme – Russia, Stati Uniti, Paesi arabi, Cina –, che hanno le chiavi della cassa. In queste condizioni si può ancora vivere bene, per un discreto periodo: ma poi il declino arriva inevitabilmente, in un’area del mondo che non è più attiva e propulsiva ma soltanto passiva, spettatrice dei processi mondiali ai quali si accoda.
Per evitarlo occorrerebbe avere classi dirigenti che smettano di pensare in termini di Italia, Francia o Spagna e inizino a ragionare davvero in termini di Europa. Invece, siamo ancora fermi a un punto in cui nemmeno l’essenziale fondo europeo per il sostegno alla Grecia e agli altri Paesi in crisi riesce a partire. La Germania, grazie a Obama, si è decisa; ma tutto resta ancora fermo. Manca il sì della Slovacchia.
«Avvenire» del 25 luglio 2010
Nessun commento:
Posta un commento