di Giorgio De Simone
Il 7 giugno, vicino a Cleburne, cittadina a ottanta chilometri da Dallas, una scavatrice perforava il gasdotto che porta il gas naturale lungo tutto lo stato del Texas. Un grande boato, una palla di fuoco, un operaio morto, altri sei feriti. Ma se è in qualche modo naturale che non ci si ricordi oggi di questo fatto, è molto grave che dalla ribalta mediatica stia sparendo anche il disastro della piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum colata a picco nel golfo del Messico il 22 aprile. Un disastro costato undici morti, una catastrofe ambientale senza precedenti con quattro stati, Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida minacciati al cuore dall’emorragia nera a tutt’oggi inarrestata. Incalcolabili i danni al mare, alla terra, a chi vive di pesca, agli animali, alla vita tutta di questi anni e dei prossimi cinquanta. Nella tragedia si è visto il presidente Obama, già in calo di consensi e accusato di avere autorizzato la costruzione di piattaforme petrolifere nell’Atlantico, andare avanti e indietro dal golfo del Messico a inveire, diffidare, lanciare ultimatum e infine dichiarare che l’era del petrolio deve finire. La Bp intanto, principale imputata del disastro, dopo aver assicurato che la sua forza economica era tale da garantire risarcimenti a tutti, ha iniziato a barcollare. Enormi le sue ricchezze, certo. Tali da far ritenere che nulla sia impossibile a chi le possiede, dunque nemmeno mettere il tappo, prima o poi, a un pozzo a 1500 metri di profondità e rifondere tutti i danneggiati. Ma nella tragedia il colosso britannico recita la parte che tocca ai giganti con i piedi finiti nell’acqua: il rimedio c’è, eccome, dicono. Ma dentro tremano. Come una tosse che non passa, il pozzo aperto genera ansia. Anche perché il valore di mercato dell’azienda è dimezzato. Le ultime notizie danno prossima una soluzione (se non altro parziale), ma mentre la marea nera si fa sempre più vicina alle coste della Florida, la multinazionale inglese è addirittura accusata di avere nascosto il petrolio sotto la sabbia delle spiagge. «Stiamo lavorando perché Bp sia responsabile dei danni alle terre e all’economia della costa del Golfo» aveva detto Obama. Aggiungendo che compito dell’America era ormai quello di sbarcare sull’isola dell’energia pulita. Ammesso, peraltro, che l’isola esista. Da qui al 2030 il 90 per cento del fabbisogno mondiale di energia potrà essere così soddisfatto: petrolio 40%, carbone 26 %, gas naturale 23%. Resterà dunque il petrolio lo spietato tiranno che costruisce ricchezze da faraone e alleva in seno la serpe dei disastri. Lo spietato tiranno che vuole mettere il becco ovunque e, per quanto ci riguarda, perfino nel pallone se è vero, come ritenuto dal ministro Calderoli, che «i petrolieri avvelenano il calcio». Sicché vincere grazie al petrolio, come ha fatto l’Inter di Massimo Moratti, dovrebbe (ma dipende dal tifo) sollevare crisi di coscienza. In ogni caso la domanda è se la crociata forzatamente bandita dal presidente degli Stati Uniti per l’energia pulita produrrà un qualche effetto. Diciamo che un’America che grida «basta» al petrolio qualcosa pure significa, non però che la forza dell’oro nero diventi debolezza o che la sua tirannia finisca. Non che un diverso futuro sia già cominciato.
«Avvenire» del 17 luglio 2010
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