Nel 1960 usciva il romanzo anti-razzismo
di Goffredo Fofi
Leggemmo Il buio oltre la siepe (nell’originale To kill a mockingbird, 'Uccidere l’uccello beffatore') che rileggiamo oggi a cinquant’anni di distanza dalla prima edizione americana, nella prima edizione italiana del 1962, quando il vento della rivolta nera cominciava a scuotere gli Stati Uniti, ma ancora in lenta progressione, tra ingiustizie evidenti e risposte necessarie. Esse sarebbero state sia violente (Malcolm X) che nonviolente (Martin Luther King) e nel corso del decennio avrebbero visto molte vittime, distrutto molte esistenze ma alla fine avrebbero portato a un radicale cambiamento nelle condizioni di vita della maggioranza degli afroamericani.
Insieme ad alcuni film dello stesso periodo (di Stanley Kramer, di John Cassavetes e altri, spesso interpretati dall’attore nero Sidney Poitier), fu il romanzo di Harper Lee, che narrava in modi più dolci una storia non troppo diversa da quella di Non si fruga nella polvere di William Faulkner, a ricordarci la situazione di tremenda disparità in cui erano costretti i cittadini statunitensi di pelle nera. In modi decisamente più duri negli Stati del Sud, che avevano edificato la loro ricchezza sulla mano d’opera degli schiavi 'importati' a viva forza dall’Africa. Il romanzo di Faulkner è del 1948, quello di Harper Lee del 1960 e i fatti che narra si svolgono nel lontano 1932. Non molte cose erano cambiate nella condizione dei neri nel corso di tanti anni. Harper Lee non è stata una scrittrice professionale ed è noto che fu la sua amicizia sin dall’infanzia con lo scrittore e giornalista Truman Capote (almeno due film sulla vita di Capote ce l’hanno ricordato) a spingerla a lasciare il lavoro di impiegata per scrivere il suo grande romanzo. Capote aveva ambizioni enormi e in parte le realizzò: A sangue freddo (1966) resta uno dei libri del secolo, anticipatore di tante inchieste con la misura del romanzo, non fiction novel, venute in seguito, e la Lee lo assistette in quella tormentata elaborazione. Capote aveva ascoltato più volte dalla voce dell’amica le storie che Il buio racconta, e l’aiutò a trovare il tono giusto per evocarle, quel tono vagamente orale o da vecchia cronaca paesana che dà ancora fascino al libro. «Jem, mio fratello, aveva quasi tredici anni all’epoca in cui si ruppe malamente il gomito sinistro»: così comincia la narrazione e prosegue con la semplicità maestosa dei grandi fiumi, attenta ai fatti grandi e piccoli, ai particolari significativi, al dialoghi fitti e veloci. E però legata a lei, Harper, qui Scout, la bambina curiosa, che ha qualcosa di Huck Finn e qualcosa della Frankie di Invito di nozze (Member of the Wedding, 1946), il capolavoro anch’esso meridionale di Carson McCullers. Curiosa, insistente, spesso impertinente, nella piccola cittadina cotoniera dell’Alabama in cui cresce la bambina Scout vive le sue avventure, tra gli otto e i nove anni di età, con Jem, il fratello maggiore, e l’estate anche con Dill, il petulante nipote di una vicina, ed è assistita e protetta da Calpurnia, la brusca cameriera di colore, e dal padre Atticus, avvocato. La madre è morta quando Scout era molto piccola, di lei Scout non ha ricordi ed è proprio quest’assenza a dare alla figura di Atticus il peso di un padre saggio che sa comportarsi, quando è il caso, da fratello maggiore nei confronti dei suoi due orfani: un padre che non li esclude dal confronto con le realtà della vita, anche quelle brucianti del razzismo, della violenza, ma che li aiuta a capire, a giudicare, a comportarsi degnamente. Atticus deve difendere un nero accusato ingiustamente di violenza carnale a danno di una ragazza bianca e questo gli crea (e crea per i suoi figli) una situazione di pericolo. La fine del nero sarà tragica e a salvare i bambini dalla vendetta bianca sarà il misterioso abitante di una casa vicina, un giovane pazzo che vi è segregato dal padre e con il quale i bambini hanno intessuto nel corso del romanzo un silenzioso rapporto di messaggi e attenzioni. Qui quell’elemento gotico che è di Faulkner e di tanta letteratura meridionale americana si inserisce splendidamente nella vicenda e nel suo coro di figure secondarie.
Con matura tranquillità, Harper Lee ha scritto con Il buio oltre la siepe uno di quei romanzi destinati a durare, perché oltre le contingenze della grande Storia è riuscita a creare una storia di formazione con personaggi esemplari, resi credibili dalla viva esperienza su cui si basano, figure precise e necessarie, caratteri definiti che ben rappresentano i bisogni che sono del lettore giovanissimo come di quello adulto: gli affetti fondamentali, la sete di giustizia, il senso della comunità e della sua crescita, ma anche la suspense che appartiene al romanzo d’avventura e di investigazione (al centro c’è pur sempre un processo). Il limite, perché un limite c’è, è il punto di vista, che è del bianco, anche se del più aperto tra i bianchi; e non poteva essere altrimenti. Dall’altra parte, scritto da un nero e dalla parte dei neri, si veda il capolavoro – uno dei grandi romanzi del Novecento non solo americano – che è Uomo invisibile di Ralph Ellison (1952).
Il buio oltre la siepe, di cui la Feltrinelli ha da poco pubblicato la trentacinquesima edizione (pagine 290, euro 8), ebbe la fortuna di un bellissimo adattamento cinematografico di Robert Mulligan (1962), di perfetta ricostruzione ambientale e di perfetta interpretazione. Meritò un Oscar al suo protagonista Gregory Peck, che non fu in generale un grande attore bensì un serio professionista e soprattutto un uomo degnissimo, molto attivo in tante battaglie americane per i diritti civili e contro la guerra nel Vietnam, il quale finanziò nell’ombra gruppi di punta democratici e nonviolenti di una società ancora dominata dal pregiudizio razziale, dalle disparità sociali e culturali, dallo sfruttamento e dalla violenza. Per il ruolo di Atticus non si poteva trovare un interprete migliore, un perfettamente cosciente e partecipe, di ciò che rappresentava, nel miglior ruolo che gli sia mai capitato di interpretare.
Insieme ad alcuni film dello stesso periodo (di Stanley Kramer, di John Cassavetes e altri, spesso interpretati dall’attore nero Sidney Poitier), fu il romanzo di Harper Lee, che narrava in modi più dolci una storia non troppo diversa da quella di Non si fruga nella polvere di William Faulkner, a ricordarci la situazione di tremenda disparità in cui erano costretti i cittadini statunitensi di pelle nera. In modi decisamente più duri negli Stati del Sud, che avevano edificato la loro ricchezza sulla mano d’opera degli schiavi 'importati' a viva forza dall’Africa. Il romanzo di Faulkner è del 1948, quello di Harper Lee del 1960 e i fatti che narra si svolgono nel lontano 1932. Non molte cose erano cambiate nella condizione dei neri nel corso di tanti anni. Harper Lee non è stata una scrittrice professionale ed è noto che fu la sua amicizia sin dall’infanzia con lo scrittore e giornalista Truman Capote (almeno due film sulla vita di Capote ce l’hanno ricordato) a spingerla a lasciare il lavoro di impiegata per scrivere il suo grande romanzo. Capote aveva ambizioni enormi e in parte le realizzò: A sangue freddo (1966) resta uno dei libri del secolo, anticipatore di tante inchieste con la misura del romanzo, non fiction novel, venute in seguito, e la Lee lo assistette in quella tormentata elaborazione. Capote aveva ascoltato più volte dalla voce dell’amica le storie che Il buio racconta, e l’aiutò a trovare il tono giusto per evocarle, quel tono vagamente orale o da vecchia cronaca paesana che dà ancora fascino al libro. «Jem, mio fratello, aveva quasi tredici anni all’epoca in cui si ruppe malamente il gomito sinistro»: così comincia la narrazione e prosegue con la semplicità maestosa dei grandi fiumi, attenta ai fatti grandi e piccoli, ai particolari significativi, al dialoghi fitti e veloci. E però legata a lei, Harper, qui Scout, la bambina curiosa, che ha qualcosa di Huck Finn e qualcosa della Frankie di Invito di nozze (Member of the Wedding, 1946), il capolavoro anch’esso meridionale di Carson McCullers. Curiosa, insistente, spesso impertinente, nella piccola cittadina cotoniera dell’Alabama in cui cresce la bambina Scout vive le sue avventure, tra gli otto e i nove anni di età, con Jem, il fratello maggiore, e l’estate anche con Dill, il petulante nipote di una vicina, ed è assistita e protetta da Calpurnia, la brusca cameriera di colore, e dal padre Atticus, avvocato. La madre è morta quando Scout era molto piccola, di lei Scout non ha ricordi ed è proprio quest’assenza a dare alla figura di Atticus il peso di un padre saggio che sa comportarsi, quando è il caso, da fratello maggiore nei confronti dei suoi due orfani: un padre che non li esclude dal confronto con le realtà della vita, anche quelle brucianti del razzismo, della violenza, ma che li aiuta a capire, a giudicare, a comportarsi degnamente. Atticus deve difendere un nero accusato ingiustamente di violenza carnale a danno di una ragazza bianca e questo gli crea (e crea per i suoi figli) una situazione di pericolo. La fine del nero sarà tragica e a salvare i bambini dalla vendetta bianca sarà il misterioso abitante di una casa vicina, un giovane pazzo che vi è segregato dal padre e con il quale i bambini hanno intessuto nel corso del romanzo un silenzioso rapporto di messaggi e attenzioni. Qui quell’elemento gotico che è di Faulkner e di tanta letteratura meridionale americana si inserisce splendidamente nella vicenda e nel suo coro di figure secondarie.
Con matura tranquillità, Harper Lee ha scritto con Il buio oltre la siepe uno di quei romanzi destinati a durare, perché oltre le contingenze della grande Storia è riuscita a creare una storia di formazione con personaggi esemplari, resi credibili dalla viva esperienza su cui si basano, figure precise e necessarie, caratteri definiti che ben rappresentano i bisogni che sono del lettore giovanissimo come di quello adulto: gli affetti fondamentali, la sete di giustizia, il senso della comunità e della sua crescita, ma anche la suspense che appartiene al romanzo d’avventura e di investigazione (al centro c’è pur sempre un processo). Il limite, perché un limite c’è, è il punto di vista, che è del bianco, anche se del più aperto tra i bianchi; e non poteva essere altrimenti. Dall’altra parte, scritto da un nero e dalla parte dei neri, si veda il capolavoro – uno dei grandi romanzi del Novecento non solo americano – che è Uomo invisibile di Ralph Ellison (1952).
Il buio oltre la siepe, di cui la Feltrinelli ha da poco pubblicato la trentacinquesima edizione (pagine 290, euro 8), ebbe la fortuna di un bellissimo adattamento cinematografico di Robert Mulligan (1962), di perfetta ricostruzione ambientale e di perfetta interpretazione. Meritò un Oscar al suo protagonista Gregory Peck, che non fu in generale un grande attore bensì un serio professionista e soprattutto un uomo degnissimo, molto attivo in tante battaglie americane per i diritti civili e contro la guerra nel Vietnam, il quale finanziò nell’ombra gruppi di punta democratici e nonviolenti di una società ancora dominata dal pregiudizio razziale, dalle disparità sociali e culturali, dallo sfruttamento e dalla violenza. Per il ruolo di Atticus non si poteva trovare un interprete migliore, un perfettamente cosciente e partecipe, di ciò che rappresentava, nel miglior ruolo che gli sia mai capitato di interpretare.
«Il buio oltre la siepe», libro autobiografico di Harper Lee, accese l’attenzione sulla dura discriminazione dei neri negli Usa. Una storia portata sugli schermi da Gregory Peck
«Avvenire» del 18 luglio 2010
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