Molti di questi definiti delitti passionali sono il sintomo del declino dell'impero patriarcale. La violenza non è solo di pazzi, mostri, malati. E poco importa il contesto sociale: non si accetta l'autonomia femminile
di Michela Marzano
Si continua a chiamarli delitti passionali. Perché il movente sarebbe l'amore. Quello che non tollera incertezze e faglie. Quello che è esclusivo ed unico. Quello che spinge l'assassino ad uccidere la moglie o la compagna proprio perché la ama. Come dice Don José nell'opera di Bizet prima di uccidere l'amante: "Sono io che ho ucciso la mia amata Carmen". Ma cosa resta dell'amore quando la vittima non è altro che un oggetto di possesso e di gelosia? Che ruolo occupa la donna all'interno di una relazione malata e ossessiva che la priva di ogni autonomia e libertà?
Per secoli, il "dispotismo domestico", come lo chiamava nel XIX secolo il filosofo inglese John Stuart Mill, è stato giustificato nel nome della superiorità maschile. Dotate di una natura irrazionale, "uterina", e utili solo - o principalmente - alla procreazione e alla gestione della vita domestica, le donne dovevano accettare quello che gli uomini decidevano per loro (e per il loro bene) e sottomettersi al volere del pater familias. Sprovviste di autonomia morale, erano costrette ad incarnare tutta una serie di "virtù femminili" come l'obbedienza, il silenzio, la fedeltà. Caste e pure, dovevano preservarsi per il legittimo sposo. Fino alla rinuncia definitiva. Al disinteresse, in sostanza, per il proprio destino. A meno di non accettare la messa al bando dalla società. Essere considerate delle donne di malaffare. E, in casi estremi, subire la morte come punizione.
Le battaglie femministe del secolo scorso avrebbero dovuto far uscire le donne da questa terribile impasse e sbriciolare definitivamente la divisione tra "donne per bene" e "donne di malaffare". In nome della parità uomo/donna, le donne hanno lottato duramente per rivendicare la possibilità di essere al tempo stesso mogli, madri e amanti. Come diceva uno slogan del 1968: "Non più puttane, non più madonne, ma solo donne!". Ma i rapporti tra gli uomini e le donne sono veramente cambiati? Perché i delitti passionali continuano ad essere considerati dei "delitti a parte"? Come è possibile che le violenze contro le donne aumentino e siano ormai trasversali a tutti gli ambiti sociali?
Quanto più la donna cerca di affermarsi come uguale in dignità, valore e diritti all'uomo, tanto più l'uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende volgare, aggressivo, violento. Grazie ad alcune inchieste sociologiche, oggi sappiamo che la violenza contro le donne non è più solo l'unico modo in cui può esprimersi un pazzo, un mostro, un malato; un uomo che proviene necessariamente da un milieu sociale povero e incolto. L'uomo violento può essere di buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Poco importa il lavoro che fa o la posizione sociale che occupa. Si tratta di uomini che non accettano l'autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla al proprio volere. Talvolta sono insicuri e hanno poca fiducia in se stessi, ma, invece di cercare di capire cosa esattamente non vada bene nella propria vita, accusano le donne e le considerano responsabili dei propri fallimenti. Progressivamente, trasformano la vita della donna in un incubo. E, quando la donna cerca di rifarsi la vita con un altro, la cercano, la minacciano, la picchiano, talvolta l'uccidono.
Paradossalmente, molti di questi delitti passionali non sono altro che il sintomo del "declino dell'impero patriarcale". Come se la violenza fosse l'unico modo per sventare la minaccia della perdita. Per continuare a mantenere un controllo sulla donna. Per ridurla a mero oggetto di possesso. Ma quando la persona che si ama non è altro che un oggetto, non solo il mondo relazionale diventa un inferno, ma anche l'amore si dissolve e sparisce. Certo, quando si ama, si dipende in parte dall'altra persona. Ma la dipendenza non esclude mai l'autonomia. Al contrario, talvolta è proprio quando si è consapevoli del valore che ha per se stessi un'altra persona che si può capire meglio chi si è e ciò che si vuole. Come scrive Hannah Arendt in una lettera al marito, l'amore permette di rendersi conto che, da soli, si è profondamente incompleti e che è solo quando si è accanto ad un'altra persona che si ha la forza di esplorare zone sconosciute del proprio essere. Ma, per amare, bisogna anche essere pronti a rinunciare a qualcosa. L'altro non è a nostra completa disposizione. L'altro fa resistenza di fronte al nostro tentativo di trattarlo come una semplice "cosa". È tutto questo che dimenticano, non sanno, o non vogliono sapere gli uomini che uccidono per amore. E che pensano di salvaguardare la propria virilità negando all'altro la possibilità di esistere.
Per secoli, il "dispotismo domestico", come lo chiamava nel XIX secolo il filosofo inglese John Stuart Mill, è stato giustificato nel nome della superiorità maschile. Dotate di una natura irrazionale, "uterina", e utili solo - o principalmente - alla procreazione e alla gestione della vita domestica, le donne dovevano accettare quello che gli uomini decidevano per loro (e per il loro bene) e sottomettersi al volere del pater familias. Sprovviste di autonomia morale, erano costrette ad incarnare tutta una serie di "virtù femminili" come l'obbedienza, il silenzio, la fedeltà. Caste e pure, dovevano preservarsi per il legittimo sposo. Fino alla rinuncia definitiva. Al disinteresse, in sostanza, per il proprio destino. A meno di non accettare la messa al bando dalla società. Essere considerate delle donne di malaffare. E, in casi estremi, subire la morte come punizione.
Le battaglie femministe del secolo scorso avrebbero dovuto far uscire le donne da questa terribile impasse e sbriciolare definitivamente la divisione tra "donne per bene" e "donne di malaffare". In nome della parità uomo/donna, le donne hanno lottato duramente per rivendicare la possibilità di essere al tempo stesso mogli, madri e amanti. Come diceva uno slogan del 1968: "Non più puttane, non più madonne, ma solo donne!". Ma i rapporti tra gli uomini e le donne sono veramente cambiati? Perché i delitti passionali continuano ad essere considerati dei "delitti a parte"? Come è possibile che le violenze contro le donne aumentino e siano ormai trasversali a tutti gli ambiti sociali?
Quanto più la donna cerca di affermarsi come uguale in dignità, valore e diritti all'uomo, tanto più l'uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende volgare, aggressivo, violento. Grazie ad alcune inchieste sociologiche, oggi sappiamo che la violenza contro le donne non è più solo l'unico modo in cui può esprimersi un pazzo, un mostro, un malato; un uomo che proviene necessariamente da un milieu sociale povero e incolto. L'uomo violento può essere di buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Poco importa il lavoro che fa o la posizione sociale che occupa. Si tratta di uomini che non accettano l'autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla al proprio volere. Talvolta sono insicuri e hanno poca fiducia in se stessi, ma, invece di cercare di capire cosa esattamente non vada bene nella propria vita, accusano le donne e le considerano responsabili dei propri fallimenti. Progressivamente, trasformano la vita della donna in un incubo. E, quando la donna cerca di rifarsi la vita con un altro, la cercano, la minacciano, la picchiano, talvolta l'uccidono.
Paradossalmente, molti di questi delitti passionali non sono altro che il sintomo del "declino dell'impero patriarcale". Come se la violenza fosse l'unico modo per sventare la minaccia della perdita. Per continuare a mantenere un controllo sulla donna. Per ridurla a mero oggetto di possesso. Ma quando la persona che si ama non è altro che un oggetto, non solo il mondo relazionale diventa un inferno, ma anche l'amore si dissolve e sparisce. Certo, quando si ama, si dipende in parte dall'altra persona. Ma la dipendenza non esclude mai l'autonomia. Al contrario, talvolta è proprio quando si è consapevoli del valore che ha per se stessi un'altra persona che si può capire meglio chi si è e ciò che si vuole. Come scrive Hannah Arendt in una lettera al marito, l'amore permette di rendersi conto che, da soli, si è profondamente incompleti e che è solo quando si è accanto ad un'altra persona che si ha la forza di esplorare zone sconosciute del proprio essere. Ma, per amare, bisogna anche essere pronti a rinunciare a qualcosa. L'altro non è a nostra completa disposizione. L'altro fa resistenza di fronte al nostro tentativo di trattarlo come una semplice "cosa". È tutto questo che dimenticano, non sanno, o non vogliono sapere gli uomini che uccidono per amore. E che pensano di salvaguardare la propria virilità negando all'altro la possibilità di esistere.
«La Repubblica» del 14 luglio 2010
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