di Massimo Onofri
Curioso destino quello del marxismo, nato alla metà dell’Ottocento con prepotenti ambizioni di nuova scienza, e capace d’ipotecare grandiosamente le speranze di milioni di diseredati, ma risoltosi invece, in questi nostri stenti anni, in superstizione da piccola tribù intellettuale. Non saprei come rubricare, infatti, se non come superstiziosa, la tesi di fondo, semplicistica e persino ovvia, nei suoi dati di realtà, che emerge da «Senza scrittori», il documentario firmato da Andrea Cortellessa e Luca Archibugi, di cui tanto s’è parlato in queste settimane. Quale tesi? Questa: che nel mercato delle nostre lettere, dominato dai grandi gruppi editoriali, non ci siano più opere (di scrittori, poeti, critici), ma soltanto produzione industriale. Tesi semplicistica e persino ovvia, proprio se giudicata marxisticamente: null’altro essendovi nella società capitalistica, marxianamente, se non produzione industriale. A partire dallo stesso documentario di Cortellessa e Archibugi: prodotto, appunto, dalla Rai. Il problema – ancora marxianamente – semmai è un altro: e cioè la differenza di qualità tra prodotto e prodotto. Una cosa è, tanto per dire, La «Commedia umana» di Balzac, un’altra «I misteri di Parigi» di Eugène Sue: come bene sapeva Marx e dopo di lui, ancor meglio, Gramsci. Ho trovato imbarazzante che in altra occasione, sulla scorta delle medesime moralistiche premesse, si sia fatto strame del romanzo pubblicato da Rizzoli della dotatissima Silvia Avallone, in quanto frutto d’una cinica operazione di marketing. E allora? Ci si spieghi, piuttosto, perché «Acciaio» sarebbe un brutto romanzo: magari con argomenti che abbiano a che fare con l’estetica e non con la sociologia. Non posso non condividere le critiche di chi – per esempio Carla Benedetti – ha lamentato la genericità, la sterilità, il conformismo di discorsi del genere: tanto più se arrivano da intellettuali che ancora credono di orientare avanguardisticamente le masse, non si sa verso quale rivoluzione, epperò sempre con l’aria di farci la lezione su cosa e, persino, su dove scrivere. Ho sempre ritenuto la posizione ideologica di Sanguineti come involontariamente parodica: figuriamoci, ora, quella di chi tende a ribadire le stesse schematiche e obsolete formule, che fanno ancora comodo, però, nell’odierno mercato mediatico, magari alle trasmissioni di Fabio Fazio. Sono convinto che una salvezza dal chiacchiericcio intellettuale – se una salvezza c’è – possa venirci dall’assunzione radicale delle proprie responsabilità, dall’ostinata volontà, davanti all’abnorme mondo delle merci, di distinguere e argomentare sempre, ogni volta ricominciando da capo. Non posso non pensare, a questo punto, a un libro libero e coraggioso – anche nella differenza dei punti di vista – dell’indimenticato Giuseppe Bonura, pubblicato di recente da Medusa: «L’industria del complimento». Che è, della responsabilità individuale, un piccolo e struggente monumento. Ne sono sicuro: un grano di onesto discernimento può valere, oggi, molto di più, delle mille idee ricevute di chi la spara grossa. E a salve.
«Avvenire» del 21 luglio 2010
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