di Massimo Onofri
Il saggio di Massimiliano Panarari «L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip» (Einaudi) ha avviato una discussione che poggia su presupposti dati per scontati, ma che scontati non sono per nulla. Una discussione moralistica e assai poco critica. Prima domanda. Siamo sicuri che il concetto gramsciano di egemonia ci serva ancora quando parliamo dell’odierna cultura di massa? Nessuno nega qui la connessione tra l’organizzazione della cultura e quella del potere: Foucault e Said hanno forse cavato quel che ancora c’era da cavare da Gramsci. Ma la sua idea di egemonia presuppone una nozione di cultura fondata sulla lotta tra blocchi sociali: e noi, oggi, non sappiamo nemmeno più cosa siano le classi esattamente. E poi: l’egemonia culturale, in Italia, non l’hanno davvero avuta nemmeno Croce e Gramsci. Figuriamoci, oggi, personaggi come Alfonso Signorini e Maria De Filippi. Seconda domanda. Siamo così certi che la televisione riesca a governare non dico l’immaginario delle masse, ma almeno il consenso? Le ultime elezioni che hanno premiato un partito, la Lega, radicato sul territorio, ci dicono qualcosa di molto diverso. Terza domanda. Il concetto di massa (campione d’inerzia e passività), così come viene agitato nel dibattito, mi pare storicamente e sociologicamente puerile. Mi chiedo: siete convinti che la «gggente» teleguidata del nostro presente sia così diversa – e dunque frutto d’irredimibile corruzione – da quella che, nel 1895, Gustave Le Bon studiò nel suo «Psicologia della folla», libro che impressionò tanto Freud che Mussolini? Stento a credere che più di sessant’anni di democrazia ci abbiano così degradato. Davvero il popolo italiano era più capace d’autogoverno, e meno eticamente analfabeta, ai tempi di Crispi e Giolitti che non in quelli di Berlusconi? Mi pare alquanto implausibile. La verità è un’altra: il discorso di Panarari nasce già vecchio, figlio com’è di quello sdoganamento della cultura cosiddetta bassa che il brillante e giovane Umberto Eco andava operando negli anni ’60 quando, combattendo apocalittici e integrati, scriveva saggi sulla fenomenologia di Mike Bongiorno. Abbiamo allora imparato che, in quanto segni dentro un sistema, un verso di Dante vale come il nodo d’una cravatta. Mi verrebbe da dire che c’è nodo e nodo (ma anche verso e verso): benché la cinica frivolezza di Signorini non sia poi così diversa dal pedagogismo politicamente corretto di Fabio Fazio, due facce d’una stessa medaglia. Il risultato? Che Mike Bongiorno sia diventato l’eroe culturale del nostro presente: dai necrologi, infatti, sembrava morto Pirandello. Riattualizzando quell’opposizione che già Eco riteneva arcaica: tra chi apocalitticamente rifiuta e chi acriticamente plaude. L’equiparazione semiologica tra alto e basso, che ormai domina sulle pagine dei giornali, sarà pure stata una necessità da nuova scienza. Ma ha svuotato l’esperienza culturale di qualsiasi valore spirituale e di ogni senso di studio e sacrificio. Coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
«Avvenire» del 13 luglio 2010
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