I destini della scrittura e dei suoi «cani da guardia» che da troppo tempo si dedicano agli stereotipi ideologici o alle strategie massmediatiche e hanno perso di vista la vera sostanza poetica del narrare. Il «j’accuse» dello scrittore, contro la crisi etica del sistema culturale
di Giuseppe Bonura *
La letteratura si fa con la letteratura: fu il motto della neoavanguardia guidata dal Gruppo 63, alla cui morte molti esultarono di gioia. Per cedere inevitabilmente alla verbosità ideologica o al più banale realismo del rappresentare le cose come sono. Ma non basta avere delle grandi idee per essere un grande scrittore, bisogna che lo stile incida la realtà con la poesia. Una sfida che si coglie in alcuni autori del secondo Novecento come Calvino e Sanguineti, La Capria, Manganelli e Arbasino ...
Poiché sono un appassionato cultore dei semplici e vigorosi luoghi comuni, dirò subito che la critica letteraria, come tutte le cose, si muove. Certe volte si muove in avanti e certe volte si muove à rebours ; qualche volta si muove anche di traverso. In ogni caso si muove.
Rispetto agli anni sessanta, negli studi critici successivi più che una marcia di occupazione, c’è stato il consolidamento delle posizioni acquisite in precedenza, a prezzo di dure battaglie contro i misoneisti di qualsiasi specie. C’è stato soprattutto un approfondimento, uno scavo meticoloso e talvolta esaltante nei territori della linguistica, della semiologia, della psicanalisi, dello strutturalismo, della teoria dell’informazione, della antropologia, della sociologia e, ovviamente, della veneranda stilistica insieme alla filologia. Tutte queste discipline o metodologie, che si guardavano in cagnesco, ora mi pare che si diano una mano e anche due nel tentativo di mettere a nudo i meccanismi che Lukács (tra l’altro malamente «usati») proiettavano le loro ombre contenutistiche su tutti gli studi letterari, sicché lo studioso di critica si sentiva intimidito e quasi paralizzato ogniqualvolta tentava, di «testa sua» di vedere un po’ più chiaro nel fenomeno letterario.
A livello di popolarità, l’emancipazione dalla schiavitù neorealistica avvenne quando al volume di saggi Passione e ideologia di Pier Paolo Pasolini si oppose il volume di saggi Ideologia e linguaggio di Edoardo Sanguineti. Si trattò di una emancipazione molto mondana, popolare, appunto, cioè recepita nel clamore delle polemiche giornalistiche o rotocalchistiche, includendo beninteso anche le riviste letterarie.
Ma critici come Gianfranco Contini, Cesare Segre, Ezio Raimondi, Maria Corti ed altri non è che avessero aspettato Edoardo Sanguineti: lo avevano ampiamente anticipato e superato sul terreno dell’analisi e della interpretazione dei testi letterari. E ci fanno di un’opera letteraria un’opera letteraria (questa tautologia è la disperazione dei dialettici dell’«età del ferro»).
Ciò che caratterizzava gli studi degli anni sessanta era una certa giovanile baldanza nell’occupare le nuove metodologie senza prima averne compreso bene il significato e la portata. Si trattava di un’euforia ampiamente giustificata, dato che si usciva dal lungo tunnel del neorealismo, nel quale si è perduto più di un critico nella disperata ricerca della via d’uscita. Gramsci e si accorse che i critici appena citati (più un ragguardevole numero di loro colleghi) avevano «lavorato» in sintonia con studiosi come Jakobson, Todorov, Tynjanov, Sklovskij, Barthes, Greimas, Morris, Bally, eccetera eccetera (le esemplificazioni sono sempre sommariamente antipatiche).
Questo significava una cosa molto importante, del resto già rilevata da Cesare Segre: cioè che i nostri studi critici non avevano nulla da invidiare per finezza e originalità a quelli degli altri paesi. Il magistero di Gianfranco Contini, pur con i limiti che non stiamo qui a ripetere, aveva impresso sulle nuove metodologie una sorta di sigillo etnico, squisitamente italiano.
Tuttavia non è proprio il caso di abbandonarsi a disdicevoli trionfalismi. Si sa che le eccezioni confermano la regola. E la regola della critica letteraria italiana è ancora improntata a un desolante provincialismo, che affonda le sue radici non nell’immediato dopoguerra (magari!) ma addirittura nel ventennio nero in tutti i sensi. Il compito prioritario che deve risolvere la nuova critica è di fare in modo che le eccezioni diventino la regola. È un problema di politica culturale, anzi di politica «tout court» (mi riferisco principalmente alla scuola).
Per questo motivo, mi sembra che privilegiare una qualsiasi delle metodologie critiche può condurre a uno sterile anche se affascinante specialismo. Per fare un esempio, i critici sociologici hanno non solo il diritto ma il dovere di interferire nei lavori dei critici strutturalisti, e viceversa. Le gelose competenze devono diventare delle disinteressate e creative «compresenze». Sono convinto che l’interdisciplinarietà è l’unica strategia per far progredire al tempo stesso gli studi specialistici e per capire sempre meglio quel più vasto «testo» che si chiama società.
Il cambiamento di rotta della nuova critica italiana è avvenuto parallelamente all’esplosione della nostra neoavanguardia. Questo mi sembra un dato incontestabile, anche se viene continuamente contestato da chi stupidamente gode del decesso per collasso ideologico del cosiddetto «Gruppo ’63». Come tutti i defunti che hanno un patrimonio non esiguo, anche la neoavanguardia ha lasciato in eredità ai suoi successori una frase semplice ma opulenta, questa: «La letteratura si fa con la letteratura».
Per non dare luogo ad equivoci tipo torre d’avorio e simili, cercherò di spiegarmi un po’ meglio. Gli scrittori italiani, i migliori, quelli che contano, hanno ormai capito che i profondissimi sentimenti e le voluminose ideologie servono magari per condurre una vita intemerata e «progressista», e anche per scrivere degli ottimi saggi o della buona prosa divulgativa, ma non servono «a priori» per creare un’opera letteraria.
La nuova critica ha ribadito, a livello teorico, ciò che i veri scrittori hanno sempre «sentito»: il materiale ideologico o diventa «segno» di poesia o non è nulla. Insomma non basta più scrivere en plein air, è necessario lavorare in un laboratorio attrezzatissimo, come appunto fanno i grandi pittori moderni.
Una volta (diciamo ieri o l’altro ieri) gli scrittori usavano fare «incetta di realtà» per poi trasferirla sulla pagina, convinti che bastasse questa semplice e patetica operazione per produrre un’opera letteraria. E alcuni, gli artisti autentici, ci riuscivano, malgrado le premesse sbagliate. Adesso, facendo loro una celebre massima di Mallarmé, gli scrittori nuovi partono dai libri per arrivare al libro. Il procedimento è omologo alle metodologie della nuova critica, la quale viene letta dai «creatori» con appassionato interesse per le sollecitazioni in essa contenute. È ovvio che i «creatori» non mettono in pratica, pedissequamente, le teorie della nuova critica (sarebbe un fenomeno aberrante) ma le piegano e le «adattano» al loro particolarissimo stile. Provocando così una sorta di benefico corto circuito tra nuova critica e nuova letteratura. Si pensi alla «baldoria linguistica» di Luigi Malerba, al «fantastico» strutturalismo dell’ultimo Calvino, alla psicanalisi «fluttuante» di Zanzotto, alla tecnica narrativa di Giuliano Gramigna, al furore retorico di Giorgio Manganelli, allo psichismo molecolare di La Capria, al gioco «destrutturante» di Arbasino, alla poesia «segnica» di Giuliani, alla «verbosa afasia» di certi testi di Sanguineti, eccetera.
Ma anche in questo caso, i nomi suddetti (più altri, naturalmente) sono eccezioni. Nel complesso gli scrittori italiani seguitano ottusamente a ignorare le conquiste della nuova critica e a produrre en plein air, simili a quei commoventi pittorelli che si vedono nelle strade.
Tutti sappiamo (anche troppo) che esistono lucrative collusioni tra alcuni critici militanti e le case editrici. Si sa anche che funziona a pieno ritmo «l’industria del reciproco complimento», come la chiamava Emilio Cecchi, dovuta all’umanissimo fatto che i critici militanti hanno degli amici, e che questi a loro volta hanno degli amici, e così via. È noto infine che i letterati italiani in genere preferiscono una sciocca adulazione a una intelligente e fruttuosa critica negativa.
Ma queste sono degenerazioni secondarie del costume della critica militante italiana. Sono gli effetti, non le cause, della glorificazione degli scrittori-pittorelli. La causa vera risiede e si nasconde nella «stanza» di chi finanzia i quotidiani e gli ebdomadari. In Italia i giornali sono stati sempre fondati per difendere gli interessi ideologici di qualche gruppo politico, nascono già inquinati (beninteso, stiamo anche qui generalizzando). I finanziatori dei giornali pensano più a consolidare il loro potere politico ed economico che a fornire informazioni oggettive e il più possibile veritiere. Stando così le cose, è naturale che le pagine letterarie siano adibite «fin dall’inizio» a fabbricare fumo per gli occhi degli ignari lettori. Dato che uno dei primissimi comandamenti dei giornali italiani è di «abbassarsi» al livello dei lettori, e non invece di elevarli mediante informazioni serie e scritte con un linguaggio serio, ecco che la struttura della pagina letteraria è necessariamente omologa a tutte le altre pagine dello stesso giornale. E il critico militante che vi recensisce o vi dibatte libri di «cultura», si uniforma automaticamente al livello «basso» dell’intero giornale. E siccome i giornali vendono informazioni false o «basse», è logico che vengano privilegiati e glorificati gli scrittoripittorelli, che non importunano l’ideologia dei padroni. Dunque, c’è una colpa individuale del critico militante (il quale, in certi casi, deve pur mangiare pure lui, perdiana, e va quindi capito. Non va capito, invece, anzi deve essere bollato a fuoco il critico militante facoltoso). Ma mi pare che la colpa vera, il flagello autentico si trova nel «manico» del padrone. La critica militante italiana collima, in generale, con la volgarità e la bassezza ideologica della cosiddetta «proprietà del giornale». Il processo di bonifica compete ai politici, pungolati però energicamente dall’azione degli intellettuali degni del nome.
Rispetto agli anni sessanta, negli studi critici successivi più che una marcia di occupazione, c’è stato il consolidamento delle posizioni acquisite in precedenza, a prezzo di dure battaglie contro i misoneisti di qualsiasi specie. C’è stato soprattutto un approfondimento, uno scavo meticoloso e talvolta esaltante nei territori della linguistica, della semiologia, della psicanalisi, dello strutturalismo, della teoria dell’informazione, della antropologia, della sociologia e, ovviamente, della veneranda stilistica insieme alla filologia. Tutte queste discipline o metodologie, che si guardavano in cagnesco, ora mi pare che si diano una mano e anche due nel tentativo di mettere a nudo i meccanismi che Lukács (tra l’altro malamente «usati») proiettavano le loro ombre contenutistiche su tutti gli studi letterari, sicché lo studioso di critica si sentiva intimidito e quasi paralizzato ogniqualvolta tentava, di «testa sua» di vedere un po’ più chiaro nel fenomeno letterario.
A livello di popolarità, l’emancipazione dalla schiavitù neorealistica avvenne quando al volume di saggi Passione e ideologia di Pier Paolo Pasolini si oppose il volume di saggi Ideologia e linguaggio di Edoardo Sanguineti. Si trattò di una emancipazione molto mondana, popolare, appunto, cioè recepita nel clamore delle polemiche giornalistiche o rotocalchistiche, includendo beninteso anche le riviste letterarie.
Ma critici come Gianfranco Contini, Cesare Segre, Ezio Raimondi, Maria Corti ed altri non è che avessero aspettato Edoardo Sanguineti: lo avevano ampiamente anticipato e superato sul terreno dell’analisi e della interpretazione dei testi letterari. E ci fanno di un’opera letteraria un’opera letteraria (questa tautologia è la disperazione dei dialettici dell’«età del ferro»).
Ciò che caratterizzava gli studi degli anni sessanta era una certa giovanile baldanza nell’occupare le nuove metodologie senza prima averne compreso bene il significato e la portata. Si trattava di un’euforia ampiamente giustificata, dato che si usciva dal lungo tunnel del neorealismo, nel quale si è perduto più di un critico nella disperata ricerca della via d’uscita. Gramsci e si accorse che i critici appena citati (più un ragguardevole numero di loro colleghi) avevano «lavorato» in sintonia con studiosi come Jakobson, Todorov, Tynjanov, Sklovskij, Barthes, Greimas, Morris, Bally, eccetera eccetera (le esemplificazioni sono sempre sommariamente antipatiche).
Questo significava una cosa molto importante, del resto già rilevata da Cesare Segre: cioè che i nostri studi critici non avevano nulla da invidiare per finezza e originalità a quelli degli altri paesi. Il magistero di Gianfranco Contini, pur con i limiti che non stiamo qui a ripetere, aveva impresso sulle nuove metodologie una sorta di sigillo etnico, squisitamente italiano.
Tuttavia non è proprio il caso di abbandonarsi a disdicevoli trionfalismi. Si sa che le eccezioni confermano la regola. E la regola della critica letteraria italiana è ancora improntata a un desolante provincialismo, che affonda le sue radici non nell’immediato dopoguerra (magari!) ma addirittura nel ventennio nero in tutti i sensi. Il compito prioritario che deve risolvere la nuova critica è di fare in modo che le eccezioni diventino la regola. È un problema di politica culturale, anzi di politica «tout court» (mi riferisco principalmente alla scuola).
Per questo motivo, mi sembra che privilegiare una qualsiasi delle metodologie critiche può condurre a uno sterile anche se affascinante specialismo. Per fare un esempio, i critici sociologici hanno non solo il diritto ma il dovere di interferire nei lavori dei critici strutturalisti, e viceversa. Le gelose competenze devono diventare delle disinteressate e creative «compresenze». Sono convinto che l’interdisciplinarietà è l’unica strategia per far progredire al tempo stesso gli studi specialistici e per capire sempre meglio quel più vasto «testo» che si chiama società.
Il cambiamento di rotta della nuova critica italiana è avvenuto parallelamente all’esplosione della nostra neoavanguardia. Questo mi sembra un dato incontestabile, anche se viene continuamente contestato da chi stupidamente gode del decesso per collasso ideologico del cosiddetto «Gruppo ’63». Come tutti i defunti che hanno un patrimonio non esiguo, anche la neoavanguardia ha lasciato in eredità ai suoi successori una frase semplice ma opulenta, questa: «La letteratura si fa con la letteratura».
Per non dare luogo ad equivoci tipo torre d’avorio e simili, cercherò di spiegarmi un po’ meglio. Gli scrittori italiani, i migliori, quelli che contano, hanno ormai capito che i profondissimi sentimenti e le voluminose ideologie servono magari per condurre una vita intemerata e «progressista», e anche per scrivere degli ottimi saggi o della buona prosa divulgativa, ma non servono «a priori» per creare un’opera letteraria.
La nuova critica ha ribadito, a livello teorico, ciò che i veri scrittori hanno sempre «sentito»: il materiale ideologico o diventa «segno» di poesia o non è nulla. Insomma non basta più scrivere en plein air, è necessario lavorare in un laboratorio attrezzatissimo, come appunto fanno i grandi pittori moderni.
Una volta (diciamo ieri o l’altro ieri) gli scrittori usavano fare «incetta di realtà» per poi trasferirla sulla pagina, convinti che bastasse questa semplice e patetica operazione per produrre un’opera letteraria. E alcuni, gli artisti autentici, ci riuscivano, malgrado le premesse sbagliate. Adesso, facendo loro una celebre massima di Mallarmé, gli scrittori nuovi partono dai libri per arrivare al libro. Il procedimento è omologo alle metodologie della nuova critica, la quale viene letta dai «creatori» con appassionato interesse per le sollecitazioni in essa contenute. È ovvio che i «creatori» non mettono in pratica, pedissequamente, le teorie della nuova critica (sarebbe un fenomeno aberrante) ma le piegano e le «adattano» al loro particolarissimo stile. Provocando così una sorta di benefico corto circuito tra nuova critica e nuova letteratura. Si pensi alla «baldoria linguistica» di Luigi Malerba, al «fantastico» strutturalismo dell’ultimo Calvino, alla psicanalisi «fluttuante» di Zanzotto, alla tecnica narrativa di Giuliano Gramigna, al furore retorico di Giorgio Manganelli, allo psichismo molecolare di La Capria, al gioco «destrutturante» di Arbasino, alla poesia «segnica» di Giuliani, alla «verbosa afasia» di certi testi di Sanguineti, eccetera.
Ma anche in questo caso, i nomi suddetti (più altri, naturalmente) sono eccezioni. Nel complesso gli scrittori italiani seguitano ottusamente a ignorare le conquiste della nuova critica e a produrre en plein air, simili a quei commoventi pittorelli che si vedono nelle strade.
Tutti sappiamo (anche troppo) che esistono lucrative collusioni tra alcuni critici militanti e le case editrici. Si sa anche che funziona a pieno ritmo «l’industria del reciproco complimento», come la chiamava Emilio Cecchi, dovuta all’umanissimo fatto che i critici militanti hanno degli amici, e che questi a loro volta hanno degli amici, e così via. È noto infine che i letterati italiani in genere preferiscono una sciocca adulazione a una intelligente e fruttuosa critica negativa.
Ma queste sono degenerazioni secondarie del costume della critica militante italiana. Sono gli effetti, non le cause, della glorificazione degli scrittori-pittorelli. La causa vera risiede e si nasconde nella «stanza» di chi finanzia i quotidiani e gli ebdomadari. In Italia i giornali sono stati sempre fondati per difendere gli interessi ideologici di qualche gruppo politico, nascono già inquinati (beninteso, stiamo anche qui generalizzando). I finanziatori dei giornali pensano più a consolidare il loro potere politico ed economico che a fornire informazioni oggettive e il più possibile veritiere. Stando così le cose, è naturale che le pagine letterarie siano adibite «fin dall’inizio» a fabbricare fumo per gli occhi degli ignari lettori. Dato che uno dei primissimi comandamenti dei giornali italiani è di «abbassarsi» al livello dei lettori, e non invece di elevarli mediante informazioni serie e scritte con un linguaggio serio, ecco che la struttura della pagina letteraria è necessariamente omologa a tutte le altre pagine dello stesso giornale. E il critico militante che vi recensisce o vi dibatte libri di «cultura», si uniforma automaticamente al livello «basso» dell’intero giornale. E siccome i giornali vendono informazioni false o «basse», è logico che vengano privilegiati e glorificati gli scrittoripittorelli, che non importunano l’ideologia dei padroni. Dunque, c’è una colpa individuale del critico militante (il quale, in certi casi, deve pur mangiare pure lui, perdiana, e va quindi capito. Non va capito, invece, anzi deve essere bollato a fuoco il critico militante facoltoso). Ma mi pare che la colpa vera, il flagello autentico si trova nel «manico» del padrone. La critica militante italiana collima, in generale, con la volgarità e la bassezza ideologica della cosiddetta «proprietà del giornale». Il processo di bonifica compete ai politici, pungolati però energicamente dall’azione degli intellettuali degni del nome.
Domina più che mai «l’industria del reciproco complimento».
Lo scrittore, che per molti anni fu il recensore di punta di «Avvenire» per la narrativa italiana, traccia un ritratto impietoso delle logiche che hanno svilito il mestiere del critico rendendolo schiavo delle tante (troppe) consorterie
* L'autore è morto il 14 luglio 2008
«Avvenire» dell'11 luglio 2010
«Avvenire» dell'11 luglio 2010
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