Paolo Macry interviene nella discussione aperta da Ernesto Galli della Loggia
di Paolo Macry
A volte l'eredità dei padri ha imposto ai figli irragionevoli tensioni e nostalgie
Anche uno storico come Ernesto Galli della Loggia, che sa guardare la foresta con l’occhio dell’aquila e il sottobosco con la perspicacia del cacciatore di tartufi, ha un’età. Più o meno, quella di chi scrive. E si tratta di una variabile decisiva. La nostra è un’età che possiede un lungo passato e dunque poco futuro. I nostri giudizi, consapevolmente e fisiologicamente, emergono dal confronto con stagioni lontane, ma vissute e sperimentate. E, comprensibilmente, la prognosi ne risente. Per leggere il presente e ipotizzare un futuro, usiamo la sapienza della memoria. Parlando con accenni preoccupati dell’Italia odierna, Galli della Loggia descrive niente di meno che the world we have lost (il mondo che abbiamo perduto), per citare un famoso saggio di Peter Laslett. Quel che gli sembra venuto meno è il modo d’essere del nostro Paese, le sue comunità locali costruite sulla scuola e sul municipio, l’appartenenza degli individui alla cerchia familiare e ai luoghi della Chiesa. Certezze, speranze, autorevolezza di «tempi felici». Il pessimismo di Galli della Loggia mescola sensibilità di storico e memoria autobiografica. Un paradigma scientifico e un mood esistenziale. Quanto l’una cosa influenza l’altra? Se si vedono le storie del Novecento scritte alla fine del secolo scorso, quel che colpisce è uno smarrimento - una sorta di fatalismo - che sembra attingere anche alla lunga esperienza di vita dei loro autori: alla classica ipertrofia della memoria e all’altrettanto classica deprivazione del futuro, che sono i segni inconfondibili di una coscienza senile. «Non sappiamo dove stiamo andando», ha scritto Eric Hobsbawm, concludendo la sua storia del Secolo breve. Il futuro è «un tunnel dove l’uomo entra nel buio, senza sapere dove lo porteranno le sue azioni», gli ha fatto eco, quasi alla lettera, François Furet, mentre Ernst Nolte, per parte sua, descriveva un Occidente, le cui donne e i cui uomini, sprofondati in un radicale individualismo edonistico, rischiano di dimenticare il proprio futuro biologico. Quel che accomuna tre intellettuali diversissimi tra loro è il pessimismo estremo. Resta il sospetto che si tratti di una sorta di sindrome generazionale, oltre che di un giudizio storico. Ma è improbabile che i giovani possano condividere simili considerazioni. Per il buon motivo che non hanno altrettanta memoria. Essendo nato nel 1946, ho sempre avvertito un forte salto emotivo rispetto a genitori che avevano sulle spalle il fascismo e la guerra. In quel caso, negli anni della ricostruzione, a sembrarmi incomprensibile era il loro ottimismo. Lo stesso antagonismo dei giovani del ‘68 nacque anche dall’impossibilità di valutare - in corpore vili - l’enorme progresso civile e politico che aveva fatto il Paese negli ultimi lustri. La letteratura e la cinematografia americane di quegli anni sono pieni di padri delusi di fronte alla scontentezza e alla ribellione dei figli. Ma i figli non avevano vissuto una terrificante depressione economica, nè il viaggio nell’inferno europeo dei totalitarismi. Mancavano di termini di confronto, se non libreschi. All’inverso, mi chiedo come possano immedesimarsi nella categoria di declino nazionale, evocata da Galli della Loggia, gli italiani che sono nati all’indomani della Guerra Fredda e della Prima Repubblica, dell’indebitamento pubblico e delle pensioni facili. La questione tira in ballo interrogativi insidiosi. Tradizionalmente, nel senso comune, la memoria ha avuto il crisma della saggezza e la storia il ruolo di magistra vitae. Gli anziani, fin dalle società più remote, hanno goduto di un atout esclusivo, significativamente prossimo alla predittività degli dei. Si è sempre ritenuto che la capacità di affondare esistenzialmente nel tempo fosse un impagabile vantaggio conoscitivo. E se fosse, piuttosto, uno svantaggio? Diamo tutti per scontato che la storia insegni qualcosa: e se invece ci confondesse le idee, proiettando impropriamente il passato sul presente e addirittura sul futuro? La memoria può essere pericolosa, com’è sempre pericoloso per un anziano fare il bilancio della propria vita. Chi continua compulsivamente a toccare il dente che duole, come l’ultimo Philip Roth, sembra annichilirsi nei suoi stessi ricordi e perde di capacità comunicativa. Del resto, non è sul lettino dell’analista che siamo stati messi in guardia dalla sindrome della moglie di Lot? Mai guardarsi indietro, se i capelli sono diventati bianchi. Anche storicamente, la memoria ha giocato brutti scherzi. Nel primo Novecento, l’esperienza tramandata dai padri ai figli di guerre perse o vinte, di depressioni economiche o di dolorosissimi displacement, ha reso aggressive alcune popolazioni, impaurite altre, vendicative altre ancora. Spesso, l’eredità mentale dei genitori ha imposto ai figli tensioni irriducibili, revanchismi devastanti, nostalgie irragionevoli di bélles epoques. O ai figli - ai giovani - ha attribuito sentimenti di smarrimento, inadeguatezza e frustrazione che tradivano in realtà il più classico transfert paterno. Significativamente, all’indomani del 1989, un improvviso ottimismo geopolitico fece dire ad alcuni che la storia era finita. Come se il sospirato superamento dei conflitti che avevano spaccato il mondo durante la Guerra Fredda comportasse l’improvvisa irrilevanza del passato. Fu una previsione errata, com’è noto, ma soprattutto fu l’eloquente conferma di quanto sia radicata l’idea che il presente e il futuro vivano all’ombra del passato. Anzi, sotto il fardello del passato. Il che può anche andar bene per la mia generazione, che magari ne ricava un’arrogante autocoscienza, ma probabilmente sta molto stretto a chi ha l’età giusta per guardare lontano e preparare il futuro. E, comprensibilmente, rimane estraneo o indifferente alla memoria minacciosa dei padri. Del resto, quarant’anni fa, non siamo stati così anche noi? Le analisi che risentono troppo del fardello del passato non possono andar bene
a chi ha l’età giusta per guardare lontano
Nella discussione scaturita dall’editoriale di Ernesto Galli della Loggia, «Un Paese senza politica» («Corriere della sera del 7 luglio), in cui lo storico ha fotografato lo smarrimento italiano del tempo presente, sono intervenuti l’8 il poeta Giuseppe Conte e, intervistati da Dino Messina, il filosofo Massimo Cacciari, che ha auspicato una nuova fase costituente, lo scrittore Sebastiano Vassalli, lo storico Franco Cardini, il regista Carlo Lizzani. Il 10 è stato pubblicato dal «Corriere» il commento dell’economista Michele Salvati, il quale ha sottolineato le mancanze della politica italiana nella gestione di una crisi che ha caratteri globali. Domenica 11 sul tema ha scritto un editoriale («Un Paese senza classe dirigente?») Sergio Romano, il quale si è augurato che il Paese ritrovi il perduto coraggio delle riforme.
«Corriere della Sera» del 13 luglio 2010
Nessun commento:
Posta un commento