26 luglio 2010

Ad Ankara vince la paura?

Dalla riscoperta delle origini armene e della fede, ai rischi per i cristiani nel Paese che vuole entrare nell’Ue. Parla Antonia Arslan
di Alessandro Rivali
Tra i casi letterari degli ultimi anni riveste un posto di pri­missimo rilievo La masseria delle allodole di Antonia Arslan; l’autrice, per anni docente di Letteratura italiana moderna e contem­poranea presso l’Università di Pa­dova, ha attinto alle tragiche me­morie famigliari per raccontare il genocidio del «mite e fantasticante» popolo armeno del 1915. Dal ro­manzo è stato tratto l’omonimo film (2007) dei fratelli Taviani, men­tre lo scorso anno è uscito il sequel, intitolato La strada di Smirne, che riallaccia i destini dei personaggi incontrati nella «Masseria» prima che le loro vite siano ulteriormente sconvolte dal grande incendio di Smirne del 1922.

Quando ha iniziato a ricostruire il passato armeno?
«Con il passare degli anni è iniziato a emergere qualcosa rimasto na­scosto molto a fondo nella mia ani­ma. Da tempo, prima di scrivere la 'Masseria', avevo iniziato a racco­gliere ogni genere di informazioni sull’Armenia. Era una parte di me con cui dovevo fare i conti. La voca­zione alla scrittura in questo caso si aprì attraverso due canali molto precisi. Sentii dei bellissimi cori in concerto a Venezia: sul programma scrissi una poesia intitolata Elegia armena. Sentivo che c’era qualcosa che doveva essere espresso e io ero molto in ritardo. Avevo perso molto tempo per la strada. L’altro moven­te per la mia scrittura fu l’incontro con la grande poesia di Daniel Va­rujan. Tentai l’impresa di tradurlo non sapendo quasi nulla di arme­no. Fu come un ordine interno. Im­mergermi nella poesia di Varujan mi ha aperto la mente: quello che era solo un ricordo famigliare, me­moria infantile, cibo armeno, è di­ventato un mondo, la storia di un mondo perduto; così è scattata la visione del 'paese perduto', come lo chiamano loro».

Dopo la «Masseria» e «La strada di Smirne» il progetto armeno è con­cluso?
«No, ci sarà un ter­zo libro. I romanzi sono legati tra di lo­ro e il secondo in­globa la storia del primo. In entrambi c’è un prologo che racconta di un non­no e di una bambi­na. Questa bambi­na è la chiave di tutto. I miei roman­zi sono storie viste con gli occhi della bambina. È la bambina che ha conservato dentro di sé tutti questi racconti. Sarà lei la protagonista del terzo libro».

Qual è la sua visione della storia? Qual è la sua visione del male?
«Richiamerei la ferita sempre aper­ta per ogni armeno. Anch’io avevo questa ferita, anche se ho tentato di negarlo per anni. È un fatto che toc­chi con mano quando incontri le persone di un popolo martirizzato per secoli. È una storia che si segue anno dopo anno, secolo dopo seco­lo, di provvisorie rinascite, di inva­sioni, di tormenti, di rapimenti, di continui patetici tentativi di rico­minciare. Eppure, non sono pessi­mista. Il male alla fine non vince, pur in tanto orrore. I poveri armeni sanno che ritroveranno la patria perduta in cielo. Per loro è una cosa molto concreta, fisica. Con profumi e colori… Non sono solo sogni… è per loro un’immagine molto con­creta e visiva. Dicono: 'Se non c’è più erba qui, la ritroveremo dall’al­tra parte'. Io avevo dentro tutto questo e non lo sapevo. Iniziai a interessarmi alla Shoah ebraica da quando avevo 9 anni: ho saputo prima degli ebrei e dopo degli armeni».

Cosa pensa della religione islami­ca?
«Non ho risposte preconfezionate, né risposte che non sono disposta a cambiare. L’islam non è una realtà unitaria, come non lo è il cristiane­simo. Anche all’interno della loro ortodossia c’è varietà. Per esempio, ci sono gli Aleviti, che sono una cospicua minoranza in Turchia, e che sono stati molto perseguitati. L’ire­nismo dell’'abbracciamoci tutti' non è praticabile davvero, e sta an­che passando di moda. La concre­tezza dei fatti ci mostra come esso venga interpretato come cedimen­to totale. Ma prendere la posizione diametralmente opposta è altret­tanto suicida. D’altronde, è difficile trovare interlocutori credibili. Pen­so che è necessario avere una posi­zione condivisa di confronto fermo su principi su cui non cedere, ma che allo stesso tempo non bisogna farsi condizionare da preconcetti o pregiudizi. C’è nel dna dell’islami­smo la percezione di essere 'la' re­ligione, quella superiore, di cui il cristianesimo è una tappa; inevita­bilmente il cristiano è visto come u­no che farebbe bene a convertirsi. Ma oggi, essi vedono in noi una si­tuazione degenerata. Del resto, la scristianizzazione dell’Europa è ab­bastanza evidente».

Come com­menta la morte di monsignor Padovese?
«È stato un fatto orrendo. Quan­to ci vorrà per capire che il filo di sangue che collega tutti gli assassini di reli­giosi o di espo­nenti delle mi­noranze in Tur­chia non può essere addebitato a singoli fanatici squilibrati? Si è fatto credere che l’assassinio di don San­toro sia stata opera di un giovane disturbato; il massacro nel 2007 di tre redattori di una casa editrice protestante presbiteriana di Malatya è stato dimenticato... La stessa magistratura in Turchia indaga sulla famigerata gang Ergenekon sulla quale non è stato espresso un giu­dizio definitivo. Il processo per l’as­sassinio del giornalista Hrant Dink è ancora in corso e uno dei suoi di­fensori si è impiccato pochi giorni fa. Non si capisce perché l’Occi­dente non veda la gravità della si­tuazione delle minoranze che han­no una vita grama in tutti i sensi.
C’è un atteggiamento persecutorio, a volte esibito a volte nascosto, che in tutta la Turchia rende difficile la vita anche sul piano burocratico: non puoi fare la carriera acccade­mica, non puoi entrare nell’ammi­nistrazione statale, né nelle forze armate, sei in tutto e per tutto un cittadino di seconda categoria. La morte di mons. Padovese è stato l’ultimo atto di questo orrore».

Che cosa riferiscono i suoi contatti in Turchia?
«I miei amici percepiscono una grande paura. Ogni volta che si ce­lebra la Messa c’è un soldato fuori dalla porta. Ci sono dei musulmani che si convertono, ma di nascosto, copertissimi, senza dirlo, con forme di battesimo segreto».
«Il filo di sangue che collega gli assassini di religiosi in Turchia non va addebitato a singoli fanatici come si è cercato di far credere per don Santoro. E la morte del vescovo Padovese è solo l’ultimo atto di questo orrore»
«Avvenire» del 17 luglio 2010

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