di Sergio Romano
Ci sono stati tempi, anche recenti, in cui le uniche prescrizioni in materia di abbigliamento erano quelle che apparivano sui cartoni d’invito a cerimonie pubbliche e feste private: abito da sera, abito da passeggio, smoking, frac, uniforme. Nessuno, a meno che non desiderasse ardentemente accettare l’invito, era costretto a indossare l’abito raccomandato. Persino la cravatta, simbolo di decoro borghese anche in ambienti comunisti, negli ultimi trent’anni è diventata facoltativa. Se desidera invitare al Quirinale Riccardo Illy, già sindaco di Trieste e presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Giorgio Napolitano dovrà chiudere un occhio e portare pazienza.
Oggi invece parecchi governi chiedono a certe persone (le donne, in particolare) di conformarsi ad alcune regole, spesso diverse da un paese all’altro. Mentre il governo turco di Recep Erdogan vuole che le studentesse possano indossare il velo nelle aule universitarie (e si scontra con il divieto introdotto dalla rivoluzione laica di Kemal Atatürk), l’Iran degli ayatollah lo impone e la Siria lo vieta. In Europa, invece, il problema all’ordine del giorno è il burqa, parola che definisce sia il burqa vero e proprio (un abito in cui il volto è coperto da una fitta reticella) sia il niqab, un abito in cui il velo copre il volto, ma lascia gli occhi scoperti. Il quadro è molto vario. In Belgio il divieto del burqa è stato approvato da una camera e attende l’approvazione dell’altra. In Francia l’approvazione delle due camere dovrebbe arrivare entro ottobre, ma il Consiglio costituzionale ha già decretato che la legge potrebbe rivelarsi anticostituzionale. In Germania quattro Länder si sono limitati a vietare che il foulard islamico venga indossato da maestre e professoresse nelle scuole pubbliche. In Austria e in Svizzera il divieto è stato discusso, ma il problema è ancora allo studio. Nei Paesi Bassi la proposta è stata accantonata, ma potrebbe tornare sul tavolo se nella prossima coalizione governativa entrasse il partito del biondo Gerry Wilders. La Spagna non intende prendere provvedimenti generali, ma alcune città, fra cui Barcellona, hanno vietato il burqa. La situazione spagnola è simile a quella italiana dove alcuni comuni leghisti hanno adottato regole locali.
Sull’utilità di queste disposizioni è lecito avere dubbi. Le donne che indossano il burqa sarebbero 2 mila in Francia (su una popolazione di 60 milioni) e 300 nei Paesi Bassi (su una popolazione di 16 milioni). La tesi secondo cui queste donne sarebbero vittime di pressioni familiari non è del tutto convincente. Molte sono cristiane convertite all’Islam e quindi soggette alla sindrome del neofita. Altre lo indossano per caparbietà identitaria o zelo religioso, e nulla rafforzerebbe i loro sentimenti quanto un divieto. Il problema, in altre parole, non è il burqa, ma il sentimento di paura e d’insicurezza che l’immigrazione musulmana sta suscitando in alcune società europee. La migliore risposta a questa paura è una buona politica d’integrazione accompagnata dal rigore contro l’immigrazione clandestina. Ma alcuni partiti pensano che la paura sia un eccellente capitale elettorale, un sentimento da assecondare e coltivare. Ho letto che al Viminale l’orientamento è verso norme generali che ribadiscano il divieto del volto coperto per ragioni d’ordine pubblico, soprattutto nelle circostanze in cui l’esigenza è fondata, ma siano prive di qualsiasi riferimento a un credo religioso. Forse è questa la soluzione migliore.
Oggi invece parecchi governi chiedono a certe persone (le donne, in particolare) di conformarsi ad alcune regole, spesso diverse da un paese all’altro. Mentre il governo turco di Recep Erdogan vuole che le studentesse possano indossare il velo nelle aule universitarie (e si scontra con il divieto introdotto dalla rivoluzione laica di Kemal Atatürk), l’Iran degli ayatollah lo impone e la Siria lo vieta. In Europa, invece, il problema all’ordine del giorno è il burqa, parola che definisce sia il burqa vero e proprio (un abito in cui il volto è coperto da una fitta reticella) sia il niqab, un abito in cui il velo copre il volto, ma lascia gli occhi scoperti. Il quadro è molto vario. In Belgio il divieto del burqa è stato approvato da una camera e attende l’approvazione dell’altra. In Francia l’approvazione delle due camere dovrebbe arrivare entro ottobre, ma il Consiglio costituzionale ha già decretato che la legge potrebbe rivelarsi anticostituzionale. In Germania quattro Länder si sono limitati a vietare che il foulard islamico venga indossato da maestre e professoresse nelle scuole pubbliche. In Austria e in Svizzera il divieto è stato discusso, ma il problema è ancora allo studio. Nei Paesi Bassi la proposta è stata accantonata, ma potrebbe tornare sul tavolo se nella prossima coalizione governativa entrasse il partito del biondo Gerry Wilders. La Spagna non intende prendere provvedimenti generali, ma alcune città, fra cui Barcellona, hanno vietato il burqa. La situazione spagnola è simile a quella italiana dove alcuni comuni leghisti hanno adottato regole locali.
Sull’utilità di queste disposizioni è lecito avere dubbi. Le donne che indossano il burqa sarebbero 2 mila in Francia (su una popolazione di 60 milioni) e 300 nei Paesi Bassi (su una popolazione di 16 milioni). La tesi secondo cui queste donne sarebbero vittime di pressioni familiari non è del tutto convincente. Molte sono cristiane convertite all’Islam e quindi soggette alla sindrome del neofita. Altre lo indossano per caparbietà identitaria o zelo religioso, e nulla rafforzerebbe i loro sentimenti quanto un divieto. Il problema, in altre parole, non è il burqa, ma il sentimento di paura e d’insicurezza che l’immigrazione musulmana sta suscitando in alcune società europee. La migliore risposta a questa paura è una buona politica d’integrazione accompagnata dal rigore contro l’immigrazione clandestina. Ma alcuni partiti pensano che la paura sia un eccellente capitale elettorale, un sentimento da assecondare e coltivare. Ho letto che al Viminale l’orientamento è verso norme generali che ribadiscano il divieto del volto coperto per ragioni d’ordine pubblico, soprattutto nelle circostanze in cui l’esigenza è fondata, ma siano prive di qualsiasi riferimento a un credo religioso. Forse è questa la soluzione migliore.
«Panorama» del 26 luglio 2010
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