Al Premio Bancarella il vignettista tiene il solito comizio sulla censura e contro Berlusconi. Ma balbetta solo scuse patetiche quando l’editore Fazi gli chiede perché continua a pubblicare per Piemme (gruppo Mondadori)
di Luigi Mascheroni
La censura? Utile, checché se ne dica. Una sano limite alla libertà di espressione risparmierebbe a chi deve ascoltare di sorbirsi banalità. E a chi vuole parlare di rendersi ridicolo.
Come è accaduto l’altroieri a Pontremoli, alla presentazione dei finalisti del premio Bancarella, il famoso riconoscimento letterario in cui a scegliere il vincitore sono 200 librai italiani. Nella cinquina c’è anche Vauro Senesi, noto semplicemente come Vauro, vignettista del manifesto e della trasmissione santoriana Annozero, in concorso con il romanzo La scatola dei calzini perduti, pubblicato da Piemme. È la storia di un giovane sudanese il quale grazie al talento per il canto e a un amico missionario riesce a giungere a Roma, dove in poco tempo capisce cosa significhi essere extracomunitari in un Paese come l’Italia di oggi, «fino al drammatico epilogo» come recita la scheda editoriale.
Comunque. Vauro, sabato pomeriggio, è chiamato a presentare il suo libro, insieme agli altri quattro finalisti, a Palazzo Dosi, davanti a un pubblico numeroso e ai vertici della Fondazione «Città del Libro» che gestisce il Premio. Prende la parola e in pochi minuti trasforma la presentazione del libro in un comizio politico-ideologico anticensura, antiBerlusconi, antigoverno, antitutto. Inizia lanciando frecciatine ironiche contro il Governo e la legge sull’immigrazione («una schifezza»), in riferimento al protagonista del suo romanzo, che è un extracomunitario («ma non un clandestino: ma cosa significa poi essere clandestino? Siamo cittadini del mondo, tutti possono stare dove gli pare», affermazione che è uno splendido principio di buonismo ecumenico ma una pessima interpretazione del diritto internazionale...) per finire col cadere nelle dozzinali banalità terzomondiste da manifesto: «Noi italiani prendiamo gli extracomunitari che hanno diritto di restare qui e li rimandiamo a morire nei lager di Gheddafi» eccetera eccetera, tutto in puro stile Vauro.
Fino a che, però, qualcuno si indispettisce, annoiato dalla solita predica ideologicamente corretta e disturbato dal fatto che uno spazio pubblico letterario diventi una tribuna politica privata. Prima una signora del pubblico fa notare che se lei, ad esempio, dovesse andare in Gabon senza passaporto e visto d’ingresso, non la farebbero entrare, extracomunitaria o no che sia; e Vauro, piccato, comincia con il ridisegnare se stesso a vittima sacrificale: «Sapevo che avrei dato fastidio anche qui... stia tranquilla signora, di bolscevichi ci sono solo io ormai». Poi Giancarlo Perazzini, scrittore che fa parte dell’entourage del presidente della Fondazione «Città del libro», interviene cercando di stemperare l’astioso soliloquio, ma causando un ulteriore attacco polemico del vignettista-romanziere: il premier è impresentabile, in Italia non c’è libertà di stampa, il Governo sta distruggendo la scuola, e tutta la colpa è di Berlusconi, al quale però elegantemente Vauro riconosce almeno un merito: «la sua personale battaglia a favore della ricrescita dei capelli».
Fino a che, a spezzare l’incantesimo del fastidioso sproloquio («Neppure ad Annozero si sarebbe giustificato un intervento così polemico e fuoriluogo sia rispetto al contesto che alle domande fatte», è il commento di Giancarlo Perazzini) interviene l’ospite inatteso.
Dal fondo della sala si alza Elido Fazi, editore non certo ascrivibile alla categoria politica-elettorale del «centrodestra» (anzi!), e a bruciapelo spara la domanda più semplice e intelligente che si possa porre: «Vauro, scusa, ma se ce l’hai tanto con Berlusconi, perché continui a pubblicare per Piemme, che è una casa editrice del gruppo Mondadori?».
Brusii, silenzio, imbarazzo.
Vauro rimane di sasso. Prima balbetta qualcosa, cerca di sviare, poi inizia l’arrampicata sugli specchi: «Sì, è vero pubblico per una casa editrice di Berlusconi, ma non è che tutti quelli che ci lavorano la pensano come lui. Anche Rai2, dove ho un contratto, fa capo al Premier, ma quelli che ci lavorano non sono tutti figli di... Berlusconi. Sarebbe come dire che perché Marchionne è a capo della Fiat tutti gli operai la pensano come lui» (dimenticando il piccolo particolare che gli operai della Fiat non hanno alternative, mentre uno come Vauro può scegliersi la casa editrice che vuole, anche se magari deve rinunciare ad anticipi più sostanziosi, ndr). Poi dall’errore logico è un attimo a passare alla banalità ideologica. «Ammetto - si giustifica il vignettista - che lavoro per un canale Rai e per Piemme... ma come si fa oggi in Italia a non lavorare per Berlusconi: ovunque ci giriamo c’è lui, è tutto suo... la verità è che in questo Paese non c’è libertà».
La verità, purtroppo, è che ce n’è troppa, come dimostra lo stesso successo mediatico di Vauro, stipendiato dalla Rai e da Piemme per poter essere libero di criticare legittimamente chiunque, a partire da chi lo paga. Si chiama democrazia, cosa che in Italia per fortuna abbonda.
Per il resto, non rimane che aggiungere due note di cronaca. La prima sono i mugugni di disapprovazione (per Vauro) e i brusii di solidarietà (a Fazi) da parte di una piazza «rossa» per antica tradizione (il giorno prima al Caffè Bellotti durante la presentazione del libro di Patrizia d’Addario non appena uno spettatore ha accennato un intervento appena appena simpatizzante con l’aria berlusconiana è stato zittito dal resto del pubblico). La seconda è l’«indisposizione» accusata in serata da Vauro, il quale ha preferito non partecipare alla tradizionale Cena dei Librai a Montereggio organizzata dal Premio Bancarella per i 200 librai votanti e i cinque finalisti, che quindi sono rimasti in quattro. Il quinto sarà andato a farsi una vignetta.
Come è accaduto l’altroieri a Pontremoli, alla presentazione dei finalisti del premio Bancarella, il famoso riconoscimento letterario in cui a scegliere il vincitore sono 200 librai italiani. Nella cinquina c’è anche Vauro Senesi, noto semplicemente come Vauro, vignettista del manifesto e della trasmissione santoriana Annozero, in concorso con il romanzo La scatola dei calzini perduti, pubblicato da Piemme. È la storia di un giovane sudanese il quale grazie al talento per il canto e a un amico missionario riesce a giungere a Roma, dove in poco tempo capisce cosa significhi essere extracomunitari in un Paese come l’Italia di oggi, «fino al drammatico epilogo» come recita la scheda editoriale.
Comunque. Vauro, sabato pomeriggio, è chiamato a presentare il suo libro, insieme agli altri quattro finalisti, a Palazzo Dosi, davanti a un pubblico numeroso e ai vertici della Fondazione «Città del Libro» che gestisce il Premio. Prende la parola e in pochi minuti trasforma la presentazione del libro in un comizio politico-ideologico anticensura, antiBerlusconi, antigoverno, antitutto. Inizia lanciando frecciatine ironiche contro il Governo e la legge sull’immigrazione («una schifezza»), in riferimento al protagonista del suo romanzo, che è un extracomunitario («ma non un clandestino: ma cosa significa poi essere clandestino? Siamo cittadini del mondo, tutti possono stare dove gli pare», affermazione che è uno splendido principio di buonismo ecumenico ma una pessima interpretazione del diritto internazionale...) per finire col cadere nelle dozzinali banalità terzomondiste da manifesto: «Noi italiani prendiamo gli extracomunitari che hanno diritto di restare qui e li rimandiamo a morire nei lager di Gheddafi» eccetera eccetera, tutto in puro stile Vauro.
Fino a che, però, qualcuno si indispettisce, annoiato dalla solita predica ideologicamente corretta e disturbato dal fatto che uno spazio pubblico letterario diventi una tribuna politica privata. Prima una signora del pubblico fa notare che se lei, ad esempio, dovesse andare in Gabon senza passaporto e visto d’ingresso, non la farebbero entrare, extracomunitaria o no che sia; e Vauro, piccato, comincia con il ridisegnare se stesso a vittima sacrificale: «Sapevo che avrei dato fastidio anche qui... stia tranquilla signora, di bolscevichi ci sono solo io ormai». Poi Giancarlo Perazzini, scrittore che fa parte dell’entourage del presidente della Fondazione «Città del libro», interviene cercando di stemperare l’astioso soliloquio, ma causando un ulteriore attacco polemico del vignettista-romanziere: il premier è impresentabile, in Italia non c’è libertà di stampa, il Governo sta distruggendo la scuola, e tutta la colpa è di Berlusconi, al quale però elegantemente Vauro riconosce almeno un merito: «la sua personale battaglia a favore della ricrescita dei capelli».
Fino a che, a spezzare l’incantesimo del fastidioso sproloquio («Neppure ad Annozero si sarebbe giustificato un intervento così polemico e fuoriluogo sia rispetto al contesto che alle domande fatte», è il commento di Giancarlo Perazzini) interviene l’ospite inatteso.
Dal fondo della sala si alza Elido Fazi, editore non certo ascrivibile alla categoria politica-elettorale del «centrodestra» (anzi!), e a bruciapelo spara la domanda più semplice e intelligente che si possa porre: «Vauro, scusa, ma se ce l’hai tanto con Berlusconi, perché continui a pubblicare per Piemme, che è una casa editrice del gruppo Mondadori?».
Brusii, silenzio, imbarazzo.
Vauro rimane di sasso. Prima balbetta qualcosa, cerca di sviare, poi inizia l’arrampicata sugli specchi: «Sì, è vero pubblico per una casa editrice di Berlusconi, ma non è che tutti quelli che ci lavorano la pensano come lui. Anche Rai2, dove ho un contratto, fa capo al Premier, ma quelli che ci lavorano non sono tutti figli di... Berlusconi. Sarebbe come dire che perché Marchionne è a capo della Fiat tutti gli operai la pensano come lui» (dimenticando il piccolo particolare che gli operai della Fiat non hanno alternative, mentre uno come Vauro può scegliersi la casa editrice che vuole, anche se magari deve rinunciare ad anticipi più sostanziosi, ndr). Poi dall’errore logico è un attimo a passare alla banalità ideologica. «Ammetto - si giustifica il vignettista - che lavoro per un canale Rai e per Piemme... ma come si fa oggi in Italia a non lavorare per Berlusconi: ovunque ci giriamo c’è lui, è tutto suo... la verità è che in questo Paese non c’è libertà».
La verità, purtroppo, è che ce n’è troppa, come dimostra lo stesso successo mediatico di Vauro, stipendiato dalla Rai e da Piemme per poter essere libero di criticare legittimamente chiunque, a partire da chi lo paga. Si chiama democrazia, cosa che in Italia per fortuna abbonda.
Per il resto, non rimane che aggiungere due note di cronaca. La prima sono i mugugni di disapprovazione (per Vauro) e i brusii di solidarietà (a Fazi) da parte di una piazza «rossa» per antica tradizione (il giorno prima al Caffè Bellotti durante la presentazione del libro di Patrizia d’Addario non appena uno spettatore ha accennato un intervento appena appena simpatizzante con l’aria berlusconiana è stato zittito dal resto del pubblico). La seconda è l’«indisposizione» accusata in serata da Vauro, il quale ha preferito non partecipare alla tradizionale Cena dei Librai a Montereggio organizzata dal Premio Bancarella per i 200 librai votanti e i cinque finalisti, che quindi sono rimasti in quattro. Il quinto sarà andato a farsi una vignetta.
«Il Giornale» del 19 luglio 2010
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