di Maurizio Cucchi
In una recente intervista a 'La Repubblica', Elizabeth Strout, la scrittrice americana vincitrice del Pulitzer e del Bancarella, afferma di dover molto alle librerie indipendenti, ai librai ancora in grado di avere una reale influenza sui lettori, di dar loro dei consigli, e dunque di determinare persino il successo di pubblico di un’opera. In effetti, se pensiamo al panorama delle nostre librerie e alla diffusione massiccia e quasi esclusiva di pochissimi titoli, ci viene da pensare che ci troviamo in un mondo diverso, rispetto a quello della Strout. In effetti, nel nostro Paese, la funzione critica e di consulenza del libraio è quasi sparita. Vediamo supermarket del libro, più o meno delle immense cartolibrerie, nelle quali gli stessi addetti sanno a malapena ciò che hanno in vendita e/o ne ignorano fieramente il valore. Esistono ancora, per fortuna, piccole o normali librerie tradizionali, è vero: ma sempre meno frequentate. Eppure, io credo, proprio qui si gioca un’importante differenza. Nessuno nega la validità del supermarket, ma perché avvilire i lettori più raffinati? Perché murare le nicchie? Perché è così difficile, da noi, creare librerie specializzate o di sola qualità, dove i comunque numerosi lettori esigenti avrebbero modo di incontrare ciò che più li potrebbe attrarre? Un doppio registro consentirebbe la vita del bestseller come quella dell’opera più complessa, rivolta a intenditori di un genere, come, per esempio, la stessa poesia, vertice innegabile dell’esercizio letterario e oggi vilmente relegato in spazi semi-invisibili. Altrove, in altri Paesi esistono questi luoghi di differenziata offerta culturale. Parigi, Londra… Da noi, si dice (e credo con ragione), che la piccola libreria di qualità non può resistere, non può avere autonomia economica. Che fare, allora, per darle forza, per incentivare per rieducare il pubblico alla sua frequentazione? Non so, lo ammetto, anche perché già intuisco che qualcuno sta sorridendo e obietta: «Ma se il libro è già in crisi, se sta per essere soppiantato dall’e-book, come si può parlare di dare maggior credito proprio al piccolo libraio indipendente, al libraio di qualità?». Premetto che non ho niente contro il libro elettronico. Premetto che non soffre di alcuna forma di feticismo nei confronti dell’oggetto libro, che ho sempre considerato un pur civile e nobile accidente dell’opera, una casa in affitto per l’opera stessa, che un domani potrà anche trovare un altro alloggio più comodo e adeguato. Detto questo, mi chiedo: ma l’e-book sarà strumento più orientato verso un pubblico generico o verso un lettore esigente? Sarà di massa o – mi si perdoni la parola fuori moda, ma che non considero affatto infame – di élite? La risposta che mi verrebbe più immediata – nella mia incompetenza specifica e nella mia scarsa capacità di penetrare la psiche umana – è questa: l’ebook è l’ideale per il consumo di massa. Dunque, se questa ipotesi non è ingenua e del tutto sbagliata in partenza, la libreria di qualità, quella che si orienta solo sul valore dell’opera nel suo specifico, potrebbe, sia pure in un tempo di transizione, prima della morte del libro, riacquistare motivazioni forti. Tornare ad esaudire i desideri del lettore, magari anche un po’ feticista, di opere non effimere. Poi, forse, il libro, come altri strumenti del passato, diverrà solo un reperto d’epoca, la testimonianza concreta e tangibile di un’idea di cultura remota. Ma noi, io credo, non ci saremo.
«Avvenire» del 27 luglio 2010
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