Dalla fine del mondo ai filosofi inesistenti passando per le calunnie sui politici e i governi: è facilissimo rimanere vittima di rumors e leggende
di Matteo Sacchi
La fine del mondo? Nel 2012: ci cascano in testa contemporaneamente il pianeta Nubiru e una guerra tra divinità maya. La distruzione delle Torri gemelle? Il risultato di una congiura della Cia, messasi d’accordo con gli alieni e i Savi di Sion. Sì perché, se non lo sapeste, gli “omini verdi” sono con noi dai tempi dell’incidente di Roswell del 1947, mentre noi umani sulla Luna non ci siamo mai stati.
Tranquilli, non siamo impazziti causa sole estivo che picchia forte in quel di via Negri, è solo una carrellata, veramente ridotta all’osso, delle follie che si possono trovare su Internet. Follie che hanno un pubblico enorme e che, per un motivo o per l’altro, finiscono per attecchire e fare danno.
Il fatto in sé non è una novità, le panzane, spontanee o coltivate, sono vecchie come il mondo (basta vedere quello che gli scribi dell’antico Egitto hanno scritto sulla battaglia di Kadesh), risalgono a ben prima del World Wide Web. E non crediate che in trappole del genere caschi solo il popolo bue. Sempre limitandoci agli esempi più eccellenti e prossimi nel tempo: il filosofo francese Bernard-Henri Levy, guru della gauche-caviar, nel suo ultimo libro ha citato ampiamente le idee di Jean Baptiste Botul, vero specialista del pensiero di Kant. Peccato che Botul non sia mai esistito, è l’invenzione sia di un giornalista satirico, Frederic Pages. Levy si è scusato molto, a forviarlo recensioni e materiali che circolavano in Rete... Stessa sorte per Ségolène Royal che per celebrare la giornata contro la schiavitù ha citato colma di commozione Léon Robert de L’Astran, noto antischiavista del Settecento (inventato di sana pianta da qualche burlone su Wikipedia).
La Rete semplicemente ha trasformato i rumors, le dicerie e le leggende in pandemie mediatiche altamente infettive e verso le quali abbiamo pochi anticorpi. Per rendersene conto basta leggere un agile saggio di Cass R. Sunstein appena uscito per Feltrinelli, Voci, gossip e false dicerie. Come si diffondono, perché ci crediamo, come possiamo difenderci (pagg. 108, euro 14). Sunstein, che è uno dei cervelloni a cui si rivolge la Casa Bianca di Obama, ha insegnato in alcune delle più importanti università americane ed è considerato uno dei massimi esperti degli effetti di internet sulla democrazia e sulla privacy. Il bilancio che traccia in questo libello è tutt’altro che incoraggiante. Con l’ausilio delle scienze sociali elenca alcune caratteristiche insite in tutti gli esseri umani (compresi chi scrive e chi legge questa pagina): siamo programmati per farci un’opinione (la preferiamo al dubbio) e ci da fastidio cambiarla a posteriori; facciamo molta fatica a pensarla diversamente da chi ci circonda; i concetti ripetuti ci sembrano convincenti; se i pochi dati che abbiamo suffragano un ragionamento logico tendiamo a prenderlo per buono e, per finire, ciò che ci fa paura o ci pare desiderabile ci manda facilmente in cortocircuito.
In questo sistema decisionale «automatizzato» non ci sarebbe niente di male: è ciò che ci consente di essere animali sociali altamente cooperativi, animali sociali che per gran parte della propria storia e preistoria hanno vissuto in piccoli gruppi dove la maggior parte delle cose si vedevano con i propri occhi o erano raccontate da persone di cui ci fidavamo. Ora però il nostro cervello deve fare i conti con input ben diversi. E nella triangolazione tra ciò che sappiamo (sempre poco rispetto allo scibile umano), ciò che ci raccontano (tantissimo) e ciò che desideriamo o temiamo. finiamo sempre più spesso per essere portati dalla corrente.
Tant’è che Sunstein, che è notoriamente di area liberal, arriva a chiedersi se in certi casi non serva addirittura una qualche forma di «censura» (chissà che brividi per i senza-bavaglio de noantri): trova disdicevole che in Kuwait solo l’11% della popolazione creda che gli attentatori dell’11 settembre siano arabi, causa disinformazione. A spaventarlo infatti sono soprattutto gli effetti delle false notizie sull’andamento economico, sui mercati e sulle elezioni democratiche (vedasi il tiro incrociato contro Obama e Sarah Palin). Perché oltre alle bufale ci sono anche le sòle diffuse ad arte.
Tranquilli, non siamo impazziti causa sole estivo che picchia forte in quel di via Negri, è solo una carrellata, veramente ridotta all’osso, delle follie che si possono trovare su Internet. Follie che hanno un pubblico enorme e che, per un motivo o per l’altro, finiscono per attecchire e fare danno.
Il fatto in sé non è una novità, le panzane, spontanee o coltivate, sono vecchie come il mondo (basta vedere quello che gli scribi dell’antico Egitto hanno scritto sulla battaglia di Kadesh), risalgono a ben prima del World Wide Web. E non crediate che in trappole del genere caschi solo il popolo bue. Sempre limitandoci agli esempi più eccellenti e prossimi nel tempo: il filosofo francese Bernard-Henri Levy, guru della gauche-caviar, nel suo ultimo libro ha citato ampiamente le idee di Jean Baptiste Botul, vero specialista del pensiero di Kant. Peccato che Botul non sia mai esistito, è l’invenzione sia di un giornalista satirico, Frederic Pages. Levy si è scusato molto, a forviarlo recensioni e materiali che circolavano in Rete... Stessa sorte per Ségolène Royal che per celebrare la giornata contro la schiavitù ha citato colma di commozione Léon Robert de L’Astran, noto antischiavista del Settecento (inventato di sana pianta da qualche burlone su Wikipedia).
La Rete semplicemente ha trasformato i rumors, le dicerie e le leggende in pandemie mediatiche altamente infettive e verso le quali abbiamo pochi anticorpi. Per rendersene conto basta leggere un agile saggio di Cass R. Sunstein appena uscito per Feltrinelli, Voci, gossip e false dicerie. Come si diffondono, perché ci crediamo, come possiamo difenderci (pagg. 108, euro 14). Sunstein, che è uno dei cervelloni a cui si rivolge la Casa Bianca di Obama, ha insegnato in alcune delle più importanti università americane ed è considerato uno dei massimi esperti degli effetti di internet sulla democrazia e sulla privacy. Il bilancio che traccia in questo libello è tutt’altro che incoraggiante. Con l’ausilio delle scienze sociali elenca alcune caratteristiche insite in tutti gli esseri umani (compresi chi scrive e chi legge questa pagina): siamo programmati per farci un’opinione (la preferiamo al dubbio) e ci da fastidio cambiarla a posteriori; facciamo molta fatica a pensarla diversamente da chi ci circonda; i concetti ripetuti ci sembrano convincenti; se i pochi dati che abbiamo suffragano un ragionamento logico tendiamo a prenderlo per buono e, per finire, ciò che ci fa paura o ci pare desiderabile ci manda facilmente in cortocircuito.
In questo sistema decisionale «automatizzato» non ci sarebbe niente di male: è ciò che ci consente di essere animali sociali altamente cooperativi, animali sociali che per gran parte della propria storia e preistoria hanno vissuto in piccoli gruppi dove la maggior parte delle cose si vedevano con i propri occhi o erano raccontate da persone di cui ci fidavamo. Ora però il nostro cervello deve fare i conti con input ben diversi. E nella triangolazione tra ciò che sappiamo (sempre poco rispetto allo scibile umano), ciò che ci raccontano (tantissimo) e ciò che desideriamo o temiamo. finiamo sempre più spesso per essere portati dalla corrente.
Tant’è che Sunstein, che è notoriamente di area liberal, arriva a chiedersi se in certi casi non serva addirittura una qualche forma di «censura» (chissà che brividi per i senza-bavaglio de noantri): trova disdicevole che in Kuwait solo l’11% della popolazione creda che gli attentatori dell’11 settembre siano arabi, causa disinformazione. A spaventarlo infatti sono soprattutto gli effetti delle false notizie sull’andamento economico, sui mercati e sulle elezioni democratiche (vedasi il tiro incrociato contro Obama e Sarah Palin). Perché oltre alle bufale ci sono anche le sòle diffuse ad arte.
Ma per questa strada arriva inevitabilmente a porsi il fatidico dubbio: «Chi controlla i controllori?». Allora a partire dalla legislazione americana prova a fissare delle mini-regole che andrebbero applicate alla Rete: rafforzare la possibilità di chiedere ritrattazioni e smentite sul web (velocizzando la possibilità di richiesta danni); fissare risarcimenti bassi ma rendere molto rapido il sistema; rafforzare il sistema di notice and take down: ti segnalo con prove che un’informazione è sbagliata e tu sei obbligato a correggerla.
Lo stesso Sunstein arriva però, quasi subito, a fare i conti con l’amara realtà: sono tutti dei palliativi. La Rete è troppo grande ed esiste un nemico pernicioso: la polarizzazione dei gruppi. Quando un gruppo si aggrega attorno a un’idea spesso l’informazione corretta e neutrale non lo scalfisce più. E allora dopo questo saggio forse conviene leggere il fantascientifico romanzo di Antoine Bello, I falsificatori (Fazi, pagg. 526, euro 19,50). L’autore immagina una misteriosa società intenta a manipolare la nostra percezione della realtà, da secoli. In fondo sembra una versione quasi ottimistica e c’è da scommettere che qualcuno in Rete la prenderà per vera.
«Il Giornale» del 21 luglio 2010
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