La prefazione dell'Elefantino
di Giuliano Ferrara
Da oggi in libreria il saggio su Obama scritto da Martino Cervo e Mattia Ferraresi
Al Foglio scherziamo su di un premio che vorremmo presto istituire: "Non è giornalismo" sarebbe il suo titolo o motivazione. La ragione è intuitiva: non ci piace il professionismo generico e compiaciuto di sé. Saper scrivere e cercare di essere intelligenti, dunque fondamentalmente onesti e rassegnati, ma con brio, nella relazione con se stessi e con il mondo, è una peculiarità che non si acquista per via deontologica, la si matura nella vita e la si conferma nell’esperienza, oltre che nella cultura o nella fede. Ci piace il mestieraccio, non la professione augusta, pomposa, ridondante, autoreferenziale, corporativa. Sappiamo di lavorare nell’ambito della selezione e della manipolazione dei fatti, non contiamo sull’invincibilità dell’Assoluto giornalistico, una sciocchezza settaria e una ridicolaggine anche grottesca.
Quest’anno il premio "Non è giornalismo" sarebbe vinto a mani basse da Martino Cervo e Mattia Ferraresi. L’inchiesta su Obama è un campione entusiasmante di curiosità ben costruita, di racconto a tesi che non conclude troppo ma dà quanto promette, di indagine che crea vere piste e veri depistaggi con l’ausilio di letture originali (Benson, Gioacchino da Fiore), di uno spirito cristiano e cattolico militante ma mai invasivo e mai petulante. Per fare agli autori il miglior complimento possibile, non sembra nemmeno un libro su Obama, genere così battuto da risultare ormai palloccoloso. Nella ricerca accurata si sente la vivacità di un’ipotesi, decisiva per scoprire qualcosa, e perfino una vena di pregiudizio, importante per giudicare con l’energia di pensiero necessaria.
L’indagine non riguarda l’immensa fortuna del candidato perfetto Barack Obama, o la sua tremenda disgrazia di presidente in calo di popolarità, anche se il libro è pieno di informazioni ben trasmesse e per così dire tirate a lucido, filtrate con sapienza; ma alla fine si distingue negli autori una perfetta noncuranza dei dettagli politici da trivio. Del fenomeno di questo strano "leader cristiano" che intende fermamente redimere il mondo impaziente di essere redento con il suo umanitarismo organicamente civile, terreno, capace di subordinare a sé il linguaggio anche sentito e vissuto della fede religiosa, gli autori vogliono cogliere l’essenziale, il nucleo atomico che poi si scinde nelle diverse sezioni della cronaca e della storia politica americana di questi anni. Li aiuta un romanzo dimenticato, quello di Robert Benson sul padrone del mondo, metafora assolutamente perfetta di ogni messaggio fondato su valori umanistici perfettamente razionalizzati; e la teologia storica di Henri de Lubac, in particolare la sua celebre tesi sull’umanesimo ateo e il suo saggio su Gioacchino da Fiore (lo spiritualismo senza il Cristo della fede e della storia può portare da qualsiasi parte, come avrebbe detto anche Gilbert K. Chesterton).
Cervo e Ferraresi si sono imbattuti nella lunga storia di una bufala molto opportuna, che a un certo punto fa capolino nella vicenda provvidenziale di quel ragazzo di Harvard che giocava a piedi nudi con i musulmani in Indonesia. Quella bufala è per il loro ritratto di Obama decisamente provvidenziale, ed è semplicemente l’invenzione di citazioni gioachimite, che Obama non ha mai pronunciato nella realtà ma che gli vengono baldanzosamente attribuite, con enorme successo, in un contesto di vanità localistica. La bufala però attecchisce. Attecchisce perché combacia con l’idea di una terza età di grazia in cui lo spirito subentra e vince la battaglia con Satana per l’estirpazione del male. E' l’utopia, l’idea di un non-luogo che si realizzi e si mostri con la sola virtuosa potenza della volontà umana. E' la religione intesa come mediazione e linguaggio, ausilio storico e politico di uno spirito di profezia che supera la Rivelazione attraverso una nuova incarnazione profetica e messianica. E' il celebre "yes we can", così anticristico e così profondamente americano, così comunitario e costituzionale ("we the people") e deistico, così massonico e protestante, illuminista e romantico, idealista e pragmatico. Questa idea-ossimoro o catena di opposti, concentrata nello slogan della vittoria, è il motivo che guida tutta l’indagine di Cervo e Ferraresi sulla reviviscenza di una antica tentazione di religione civile che si manifesta in Obama, sulla ripresa galoppante di valorismo umanitario, di spirito e religiosità improntati a profetismo consolante e benevolo: ciò che la gente sopra tutto chiede o sembra chiedere nel nostro tempo credulone senza fede.
Quest’anno il premio "Non è giornalismo" sarebbe vinto a mani basse da Martino Cervo e Mattia Ferraresi. L’inchiesta su Obama è un campione entusiasmante di curiosità ben costruita, di racconto a tesi che non conclude troppo ma dà quanto promette, di indagine che crea vere piste e veri depistaggi con l’ausilio di letture originali (Benson, Gioacchino da Fiore), di uno spirito cristiano e cattolico militante ma mai invasivo e mai petulante. Per fare agli autori il miglior complimento possibile, non sembra nemmeno un libro su Obama, genere così battuto da risultare ormai palloccoloso. Nella ricerca accurata si sente la vivacità di un’ipotesi, decisiva per scoprire qualcosa, e perfino una vena di pregiudizio, importante per giudicare con l’energia di pensiero necessaria.
L’indagine non riguarda l’immensa fortuna del candidato perfetto Barack Obama, o la sua tremenda disgrazia di presidente in calo di popolarità, anche se il libro è pieno di informazioni ben trasmesse e per così dire tirate a lucido, filtrate con sapienza; ma alla fine si distingue negli autori una perfetta noncuranza dei dettagli politici da trivio. Del fenomeno di questo strano "leader cristiano" che intende fermamente redimere il mondo impaziente di essere redento con il suo umanitarismo organicamente civile, terreno, capace di subordinare a sé il linguaggio anche sentito e vissuto della fede religiosa, gli autori vogliono cogliere l’essenziale, il nucleo atomico che poi si scinde nelle diverse sezioni della cronaca e della storia politica americana di questi anni. Li aiuta un romanzo dimenticato, quello di Robert Benson sul padrone del mondo, metafora assolutamente perfetta di ogni messaggio fondato su valori umanistici perfettamente razionalizzati; e la teologia storica di Henri de Lubac, in particolare la sua celebre tesi sull’umanesimo ateo e il suo saggio su Gioacchino da Fiore (lo spiritualismo senza il Cristo della fede e della storia può portare da qualsiasi parte, come avrebbe detto anche Gilbert K. Chesterton).
Cervo e Ferraresi si sono imbattuti nella lunga storia di una bufala molto opportuna, che a un certo punto fa capolino nella vicenda provvidenziale di quel ragazzo di Harvard che giocava a piedi nudi con i musulmani in Indonesia. Quella bufala è per il loro ritratto di Obama decisamente provvidenziale, ed è semplicemente l’invenzione di citazioni gioachimite, che Obama non ha mai pronunciato nella realtà ma che gli vengono baldanzosamente attribuite, con enorme successo, in un contesto di vanità localistica. La bufala però attecchisce. Attecchisce perché combacia con l’idea di una terza età di grazia in cui lo spirito subentra e vince la battaglia con Satana per l’estirpazione del male. E' l’utopia, l’idea di un non-luogo che si realizzi e si mostri con la sola virtuosa potenza della volontà umana. E' la religione intesa come mediazione e linguaggio, ausilio storico e politico di uno spirito di profezia che supera la Rivelazione attraverso una nuova incarnazione profetica e messianica. E' il celebre "yes we can", così anticristico e così profondamente americano, così comunitario e costituzionale ("we the people") e deistico, così massonico e protestante, illuminista e romantico, idealista e pragmatico. Questa idea-ossimoro o catena di opposti, concentrata nello slogan della vittoria, è il motivo che guida tutta l’indagine di Cervo e Ferraresi sulla reviviscenza di una antica tentazione di religione civile che si manifesta in Obama, sulla ripresa galoppante di valorismo umanitario, di spirito e religiosità improntati a profetismo consolante e benevolo: ciò che la gente sopra tutto chiede o sembra chiedere nel nostro tempo credulone senza fede.
«Il Foglio» del 22 luglio 2010
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