Per Vittorino Andreoli diventa killer chi perde la persona da cui dipende in modo morboso
di Vittorino Andreoli
I delitti per abbandono sentimentale costituiscono un genere, sostenuto ormai dalla frequenza con cui giungono alla cronaca, ma soprattutto dalla dinamica con cui vengono consumati. Il killer è un uomo che viene lasciato da una donna: non sopportando di perdere l’oggetto dell’attaccamento, la uccide e talvolta in seguito si suicida. Esistono almeno altrettanti casi di uomini che lasciano la loro donna ma è raro che costei, per simmetria, segua lo stesso comportamento. Dunque è un delitto proprio del genere maschile. Abbiamo parlato di attaccamento e non di amore e la distinzione è sostanziale: l’amore tiene sempre conto dell’altro e giunge a fare persino ciò che gratifica l’oggetto amato, mentre l’attaccamento esprime un legame totalmente egocentrato e si costituisce per dare soluzione (consapevole o inconsapevole) ad un bisogno esistenziale importante, una questione di vita e di morte e lo dimostra il fatto che se si perde «l’appiglio» si uccide e ci si uccide. L’attaccamento è il termine che in psicologia viene usato per la relazione madre-bambino in cui è addirittura impossibile considerare i due termini staccati: una chiave non ha senso se non in riferimento ad una serratura in cui entra perfettamente. Ebbene questi killer sono per lo più insicuri, immaturi, incapaci di autonomia e non amano l’oggetto a cui si attaccano ma semplicemente stabiliscono un rapporto gregario come fa un muschio nei confronti della pianta da cui trae la linfa. E l’immaturità è sempre più diffusa e non solo negli adolescenti, ma anche tra persone che anagraficamente sono adulte e possono vivere solo se piantate su qualcuno che le accudisce e che si occupa di loro. Il problema della crescita non va riferito solo alla dimensione somatica e nemmeno alla razionalità: due parametri che di solito sono ben sviluppati, ma riguarda anche i sentimenti che sovente rimangono al livello infantile. E che si tratti di un processo abbandonico in questa categoria di omicidi è sottolineato dal suicidio che sovente segue, come a dire che non si tratta di giustiziare una colpa, ma di prendere consapevolezza della impossibilità, senza quel legame, di poter vivere. Da ciò deriva anche che non hanno nulla a che fare con i delitti per gelosia poiché in questo caso si uccide il nemico che ha rubato il proprio oggetto d’amore e/o si punisce la donna che comunque si è lasciata portare via. Anche in questo caso tra le vittime domina la donna. Per dare maggior senso a questa dinamica occorre aggiungere che l’uccidere nella nostra cultura è diventato un fatto banale, soprattutto per le nuove generazioni che cominciamo con il primo videogioco ad ammazzare per divertimento e l’abilità sta proprio nel numero di morti, sia pure di sagome umane, che vengono fatti in un dato tempo. Ammazzare è banale quando la vita non ha un senso o comunque non ci si è nemmeno mai posto quale possa essere. Uccidere si riduce a un gesto come quello di premere il tasto di un pianoforte: si sente un suono e poi cessa e lo si dimentica. E ormai diminuisce anche il senso tra uccidere un altro o se stessi proprio perché il riferimento, la morte, è debole e non ha più nulla del mistero o del dramma della condizione umana. Ma c’è un’altra questione che questi casi sollevano e riguarda il rapporto tra biologia e cultura. Un tema antico che ora ritorna con grande forza. Ha dominato negli ultimi decenni l’idea che la cultura, che dipende dalla società in cui si vive, è in grado di neutralizzare le pulsioni, gli istinti, che invece si legano alla carne e alla specie animale e che tendono a operare automaticamente. Si esprimono se non sono contenuti dai freni inibitori della cultura, da cui dipendono le capacità di autocontrollo dei singoli. E ci si era convinti che la civilizzazione si legasse proprio al dominio della natura: dalla natura alla cultura, questo era lo slogan. Ebbene stiamo constatando che il richiamo della foresta, delle pulsioni, forse per la perdita della razionalità e del controllo dei sentimenti (il buonsenso, la saggezza) si sta dimostrando di tale forza da riportare alla primitività. Nella biologia umana il ruolo del maschio è diviso nettamente da quello della donna, l’uomo è il dominatore nel senso bruto del termine. Il maschio è il dominus anche per il diritto romano e per un livello di civiltà evoluto. Le relazione sono state per millenni all’insegna della donna come fedele serva dei suoi bisogni e in primis di quelli della sessualità. La donna sta ritornando a essere un oggetto di godimento, e ad assumere il ruolo di madre che protegge e coccola questi maschi potenti ma fragili, grandi ma bambini. E le grida del femminismo si sentono lontane come una eco che sa più di mitologia che di storia. Questi omicidi rimandano dunque alla cultura e non come forse si pensa o si vorrebbe soltanto agli psichiatri che servendosi della patologia della mente spiegano i casi estremi destreggiandosi tra una normalità indefinibile e una follia scomparsa. In questo specifica tipologia omicida non basta la psichiatria ma occorre persino fare riferimento ai principi sulla cui base soltanto si può controllare la nostra rabbia e quel tanto di animale violento che conteniamo. E non è piccola cosa.
«Corriere della Sera» del 13 luglio 2010
Nessun commento:
Posta un commento