di Cesare Cavalleri
Si dice che un classico è un autore che vien dato per letto, cioè che si è smesso di leggere. È la sorte di molti poeti e scrittori del Novecento, quorum Aldo Palazzeschi, citato nelle storie della letteratura, ma conosciuto soprattutto per il romanzo Le sorelle Materassi (1934) che i non giovanissimi ricordano nella trasposizione televisiva che ne fece Mario Ferrero nel 1972, con le primedonne Sarah Ferrati, Rina Morelli e Nora Ricci, interpreti delle tre zie soggiogate dal nipote Remo, impersonato da Giuseppe Pambieri.
Una bella occasione per riparlare di Palazzeschi è il volume di Annalisa Cima Palazzeschi l’imprevedibile, con un disegno di Eugenio Montale, dodici straordinarie fotografie del regista Alberto Lattuada e con una nota di Vanni Scheiwiller. È un volume di grande formato, impresso con la consueta maestria dalla Stamperia Valdonega di Verona, per conto della Fondazione Schlesinger (Milano- Lugano, 2010). L’edizione è di soli cento esemplari, ma può darsi che in seguito ne venga una tiratura commerciale. Perché parlare di un libro destinato a soli cento bibliofili? Ma è proprio di questi libri che si deve dare informazione: i libri che stanno nelle librerie i lettori se li possono comperare e farsene un autonomo giudizio, senza bisogno di recensori.
Nelle prime pagine, Annalisa Cima racconta il suo incontro con Palazzeschi. Era il 1972 e la giovane poetessa seguì il preciso rituale suggeritole da Montale: una lettera infilata sotto la porta dell’abitazione di Palazzeschi, poi la telefonata il giorno dopo, e finalmente l’incontro. Nella bella casa romana del poeta, con tanti quadri dell’amico De Pisis, conosciuto a Parigi negli anni ’30, e tante vetrine per la ricca collezione di bicchieri e altri cristalli, nacque un’amicizia che si concretò anche in passeggiate nelle «strade dell’anima» che il fiorentino Palazzeschi, ottantasettenne, conosceva così bene (Firenze, Roma, Venezia e Parigi sono le città del poeta).
«Dopo il terzo o quarto incontro», annota la Cima con innocente malizia, «mi disse che era un peccato ch’io non fossi un ragazzo e a questa frase fece eco con una risatina colma di simpatia». Ne risultarono due poesie dedicate ad Annalisa Cima, e due, in risposta, della poetessa, riprodotte nel libro. Si tratta degli ultimissimi lavori di Palazzeschi (morirà il 17 agosto 1974), che in tarda età era ritornato alla poesia (Via delle cento stelle è del fatidico 1972). Palazzeschi aveva colto nel segno parlando dei «versi angelici e iracondi» della poetessa, e Annalisa aveva infallibilmente contraccambiato designando lui come «angelo sulfureo dell’assoluto». Nella sua Nota, Scheiwiller indicava Palazzeschi come «poeta en saltimbanque che corregge col 'ghiribizzo' la cupezza della tragedia o anche soltanto della noia: perché la liricità dell’angoscia gli è lontana, estranea ». E in un antico, memorabile saggio, Aldo Borlenghi (insigne poeta e critico oggi al più citato solo per aver fatto impermalire Umberto Saba), aveva scritto, di Palazzeschi, «la capacità di portarsi nella forma e con i mezzi più discreti a una situazione d’apparentemente leggera, quanto in sostanza straordinaria, intimità e profondità ».
Una bella occasione per riparlare di Palazzeschi è il volume di Annalisa Cima Palazzeschi l’imprevedibile, con un disegno di Eugenio Montale, dodici straordinarie fotografie del regista Alberto Lattuada e con una nota di Vanni Scheiwiller. È un volume di grande formato, impresso con la consueta maestria dalla Stamperia Valdonega di Verona, per conto della Fondazione Schlesinger (Milano- Lugano, 2010). L’edizione è di soli cento esemplari, ma può darsi che in seguito ne venga una tiratura commerciale. Perché parlare di un libro destinato a soli cento bibliofili? Ma è proprio di questi libri che si deve dare informazione: i libri che stanno nelle librerie i lettori se li possono comperare e farsene un autonomo giudizio, senza bisogno di recensori.
Nelle prime pagine, Annalisa Cima racconta il suo incontro con Palazzeschi. Era il 1972 e la giovane poetessa seguì il preciso rituale suggeritole da Montale: una lettera infilata sotto la porta dell’abitazione di Palazzeschi, poi la telefonata il giorno dopo, e finalmente l’incontro. Nella bella casa romana del poeta, con tanti quadri dell’amico De Pisis, conosciuto a Parigi negli anni ’30, e tante vetrine per la ricca collezione di bicchieri e altri cristalli, nacque un’amicizia che si concretò anche in passeggiate nelle «strade dell’anima» che il fiorentino Palazzeschi, ottantasettenne, conosceva così bene (Firenze, Roma, Venezia e Parigi sono le città del poeta).
«Dopo il terzo o quarto incontro», annota la Cima con innocente malizia, «mi disse che era un peccato ch’io non fossi un ragazzo e a questa frase fece eco con una risatina colma di simpatia». Ne risultarono due poesie dedicate ad Annalisa Cima, e due, in risposta, della poetessa, riprodotte nel libro. Si tratta degli ultimissimi lavori di Palazzeschi (morirà il 17 agosto 1974), che in tarda età era ritornato alla poesia (Via delle cento stelle è del fatidico 1972). Palazzeschi aveva colto nel segno parlando dei «versi angelici e iracondi» della poetessa, e Annalisa aveva infallibilmente contraccambiato designando lui come «angelo sulfureo dell’assoluto». Nella sua Nota, Scheiwiller indicava Palazzeschi come «poeta en saltimbanque che corregge col 'ghiribizzo' la cupezza della tragedia o anche soltanto della noia: perché la liricità dell’angoscia gli è lontana, estranea ». E in un antico, memorabile saggio, Aldo Borlenghi (insigne poeta e critico oggi al più citato solo per aver fatto impermalire Umberto Saba), aveva scritto, di Palazzeschi, «la capacità di portarsi nella forma e con i mezzi più discreti a una situazione d’apparentemente leggera, quanto in sostanza straordinaria, intimità e profondità ».
La traccia di Palazzeschi nella poesia italiana è profonda, riconosciuta perfino dalla Neoavanguardia come testimoniano le 78 pagine che Edoardo Sanguineti gli ha riservato nella sua einaudiana antologia del Novecento.
Ma mi piace ricordare il poeta dell’Incendiario, di Rio Bo, della Fontana malata, di Ara Mara Amara, di Oro Doro Odoro Dodoro, con i versi di Ardengo Soffici, amico dei suoi anni fiorentini: «Palazzeschi, eravamo tre, / Noi due e l’amica ironia, / A braccetto per quella via / Così nostra alla ventitré». I due poeti commentano con disincanto il decoro borghese dei palazzi che fiancheggiano la via, finché «un organetto un po’ sordo / si mise a cantare: Ohi Marì.../ E fummo quattro oramai / a braccetto per quella via. / Peccato! La malinconia / S’era invitata da sé».
Ma mi piace ricordare il poeta dell’Incendiario, di Rio Bo, della Fontana malata, di Ara Mara Amara, di Oro Doro Odoro Dodoro, con i versi di Ardengo Soffici, amico dei suoi anni fiorentini: «Palazzeschi, eravamo tre, / Noi due e l’amica ironia, / A braccetto per quella via / Così nostra alla ventitré». I due poeti commentano con disincanto il decoro borghese dei palazzi che fiancheggiano la via, finché «un organetto un po’ sordo / si mise a cantare: Ohi Marì.../ E fummo quattro oramai / a braccetto per quella via. / Peccato! La malinconia / S’era invitata da sé».
«Avvenire» del 21 luglio 2010
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