Un saggio di Giuseppe Parlato accende la discussione: paragonò i contestatori ai nazisti
di Dino Messina
Il percorso politico di Renzo De Felice, il grande storico del fascismo nato a Rieti nel 1929 e scomparso a Roma nel 1996, e in particolare la sua visione del Sessantotto divide storici e sociologi. Il punto di partenza è un saggio di Giuseppe Parlato, De Felice, il Sessantotto e la difesa dello Stato di diritto, uscito sull’ultimo fascicolo della rivista «Ventunesimo secolo» che è stato recensito molto ampiamente e positivamente giovedì scorso su «Avvenire» da Paolo Simoncelli. De Felice andò in cattedra proprio nel 1968, anno in cui cominciò a collaborare su invito di Giovanni Spadolini al «Corriere della Sera», giornale che avrebbe lasciato per la svolta a sinistra impressa da Piero Ottone. Nel 1974 De Felice sarebbe stato assieme a un altro protagonista della storiografia italiana, Rosario Romeo, tra gli animatori della terza pagina del «Giornale nuovo» fondato e diretto da Indro Montanelli. Erano anni in cui si parlava molto di fascismo e, per esempio il 1972, nota Simoncelli, con il cinquantenario della Marcia su Roma, «induceva a tautologici paragoni con il presente, cui De Felice opponeva invece analogie dei sessantottini con la sinistra nazista, antiweimariana, antiparlamentare, all’insegna di quel "nichilismo rivoluzionario" su cui andava riflettendo Del Noce».
Insomma, una stroncatura del Sessantotto su cui non è d’accordo il sociologo ex sessantottino Paolo Sorbi, che ieri, sempre sul quotidiano cattolico, è sbottato: «Ma quali "nazisti di sinistra"? Certamente non aver compreso che il neofascismo degli anni Settanta fosse uno strumento di irrazionalità sociale fu "nostra" debolezza che ci indusse a una certa sottovalutazione delle dinamiche democratiche, ma da questo a negarne la nuova consistenza antidemocratica e concreta, anche su scala internazionale, è a mio parere un limite nelle analisi dello storico di Rieti». Ma l’accusa principale a De Felice è di essere stato l’interprete, secondo Sorbi, di una cultura non al passo con i tempi: «Fu il limite di quella cultura idealistica-storicistica, da Croce a Gentile a un certo Amendola passando per De Felice nell’essere giunta irrigidita ed estenuata al tornante di svolta sociale che fu il decennio ‘68-’78». Attento ai limiti del Sessantotto, insomma, De Felice sarebbe stato incapace di vederne le novità. A questo punto interviene l’autore del saggio da cui è partita la discussione, Giuseppe Parlato, che tra l’altro ha preparato per «Libero» un intervento anche in risposta ad alcune domande poste da Simoncelli. «Attenzione - avverte Parlato -. De Felice criticò il Sessantotto ma non da posizioni di destra. Egli era politicamente favorevole a un accordo tra la Dc e i partiti laici anche per contrastare l’egemonia culturale comunista, ma non fu mai favorevole a un’alternativa della destra. Del Sessantotto, biasimò soprattutto alcuni aspetti, in particolare la tendenza a delegittimare l’avversario politico e una tendenza all’intimismo che avrebbe portato a un radicale ritorno alla dimensione privata».
«Corriere della Sera» del 24 luglio 2010
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