«La gestazione dell’uomo occidentale sta nell’incontro tra paideía classica ed evento cristiano. Il concetto patristico e medievale di persona dice qualcosa che almeno in parte è già detto nella filosofia greca e nel diritto romano, ma lo radica in un’ulteriore profondità e lo dilata a una reale universalità. Persona, infatti, è ogni uomo e ogni donna, nella sua irripetibile e intangibile dignità, in quanto creati e ricreati in Cristo Gesù a immagine e somiglianza di Dio». L’idea, per dirla con Wilhelm Dilthey, della «comune educazione di tutte le nazioni da parte della Provvidenza», ha le radici nella dottrina risalente a Giustino, secondo cui il Lógos ha sparso con larghezza semi di verità presso i profeti d’Israele e i filosofi greci
di Piero Coda
Libertà e comunione, identità e dialogo, irripetibilità e universalità. Sono alcune delle polarità dell’educazione cristiana, che, affinatasi nei secoli e tempratasi a contatto con la modernità, si offre come la migliore risorsa per affrontare la globalizzazione
Il tema della formazione dell’uomo occidentale reca in sé un’intrinseca duplicità di significato: rinvia al processo storico e culturale che, nell’intreccio di diverse componenti, ha propiziato la gestazione di questa peculiare esperienza, ma allude anche a quanto di originale e prezioso vi ha da essere oggi nella formazione di un uomo che accolga in sé le conquiste della tradizione occidentale e insieme le sappia giocare nell’apertura di dialogo con le altre tradizioni e culture. Già quest’idea del reciproco rimando tra il vettore diacronico e quello sincronico della paideía, tra la sua dimensione comunitaria e la sua dimensione personale, ha qualcosa di suggestivo e invita a privilegiare una chiave di lettura specifica che ha fatto capolino nella storia dell’Occidente e ne ha plasmato la cultura: l’idea – per dirla con le parole di Wilhelm Dilthey – della «comune educazione di tutte le nazioni da parte della Provvidenza». Essa getta le radici nella dottrina, risalente a Giustino filosofo nel II secolo, secondo cui il Lógos, prima di manifestarsi personalmente in Gesù di Nazareth, ha sparso con larghezza semi di verità e giustizia presso i profeti d’Israele così come presso i filosofi e legislatori dell’antica Grecia, un’idea che trova ampia declinazione nel libro X del De Civitate Dei di sant’Agostino, contribuendo poi, in epoca moderna, alla nascita della filosofia della storia, come ad esempio accade ne L’educazione del genere umano di G.E. Lessing. Senz’entrare nel merito del suo contenuto, se ne possono trarre due lezioni: l’una concernente la lettura della tradizione che sta alle nostre spalle, l’altra quella del presente e di ciò che si para a noi dinanzi.
Circa la tradizione, e cioè la gestazione dell’uomo occidentale, mi pare occorra dire, innanzi tutto, che senz’altro c’è stato un provvidenziale anche se non scontato né sempre pacifico incontro tra la paideía classica e l’ideale umanistico per sé inerente all’evento cristiano: tanto che molti dei valori trasmessi dalla prima hanno ritrovato vitalità ed efficacia durativa grazie alla progressiva e tentativa incarnazione del secondo. Ma occorre insieme ribadire che l’ideale cristiano ha costituito una vera e propria krísis della paideía classica, una destrutturazione e ristrutturazione tanto profonde e radicali quanto il «lógos della croce» – come lo chiama l’apostolo Paolo –, senza rinnegare le precedenti acquisizioni, le colloca però in un orizzonte nuovo, quando non le rovescia e le risignifica.
Detto questo, si può tentare di abbracciare con un solo sguardo la lezione del passato e la sfida del presente, soffermando l’attenzione su di una cifra in certo modo riassuntiva della gestazione dell’uomo occidentale nell’incontro tra paideía classica ed evento cristiano e, in altra forma, dell’impegno che l’esito del moderno oggi c’impone. Questa cifra è quella della persona. Il suo concetto e, prima, la sua esperienza si trovano al crocevia del confluire dell’eredità classica nella sintesi cristiana, ma anche dell’incrinarsi di questa sotto i colpi delle critiche e delle istanze del moderno e perciò della sfida e della chance, oggi, di una sua riproposizione rinnovata.
Il concetto patristico e medievale di persona dice infatti qualcosa che già almeno in parte è detto nella filosofia greca e nel diritto romano, ma insieme lo radica in un’ulteriore profondità e lo dilata a una reale universalità. Persona, infatti, è ogni uomo e ogni donna, nella sua irripetibile e intangibile dignità, in quanto creati e ricreati in Cristo Gesù a immagine e somiglianza di Dio. Di qui la percezione della singolarità di ogni essere umano e l’estensione universale del suo concetto, al di là di ogni condizione e situazione. E ciò è straordinario e rappresenta il guadagno di una soglia imperdibile nella coscienza dell’umanità.
Eppure, la modernità mette in crisi questo concetto e questa esperienza e rimette in gioco, accanto e in definitiva in alternativa al concetto di persona, quello di individuo. Perché? Per rispondere – guardando alle cose con «l’occhio» del Crocifisso – occorre mettere in rilievo, in primis, non le derive ma le istanze che non di rado vi stanno sotto. Si tratta, detto in una parola, dell’istanza della libertà e della coscienza: implicita – eccome – nell’idea cristiana di persona, ma non sufficientemente esplicitata e praticamente declinata a livello antropologico, culturale, sociale, politico. La sfida, dunque, non è quella di aggirare questa istanza o di riassorbirla, ma di farla scaturire dalla profondità stessa dell’eredità, ancora insondata, dell’evento cristiano. L’individuo assolutizzato, infatti, implode in sé: e oggi assistiamo alle conseguenze tragiche di questo fenomeno. Occorre allora – come dice Paul Ricoeur, ma penso anche al nostro Luigi Pareyson –, «éveiller la personne»: quella persona che è, insieme, libertà e comunione, identità e dialogo, irripetibilità e universalità.
Benedetto XVI, rivolgendo la sua parola all’assemblea della Cei lo scorso mese di maggio, ha espresso questo concetto in modo limpido e incisivo: «È essenziale per la persona il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’'io' diventa se stesso solo dal 'tu' e dal 'noi', è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. Solo l’incontro con il 'tu' e con il 'noi' apre l’'io' a se stesso'. Il che significa anche aprirsi, dall’interno della propria identità e – direi – per esigenza intrinseca della propria identità, all’alterità delle altre tradizioni culturali. Cosa – come sappiamo – che esige una ponderata e matura educazione. Del resto, non è proprio questo che ci è proposto nella figura del Crocifisso/Risorto e di Dio stesso come Trinità, e cioè unità di condivisione di reali alterità?
Echeggiando la Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II, si può dire pertanto che la Chiesa è chiamata a maturare la coscienza, i modi e i luoghi per realizzare la sua identità e missione di segno e strumento dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, come si legge nel Vaticano II, diventando in concreto casa e scuola della comunione e del dialogo e facendo emergere quest’esperienza e questa cultura «come principio educativo in tutti i luoghi ove si plasma l’uomo e il cristiano» (cfr.Nmi, 43). Seguendo questa logica si possono intuire alcune armoniche in riferimento allo stile dei luoghi e dei cammini di formazione di cui oggi abbiamo vitale necessità.
In primo luogo, il primato della qualità dei rapporti di trasparenza personale. Ciò chiede d’integrare la forma cristologica della propria conformazione individuale a Cristo – su cui tradizionalmente si è posto l’accento – con la forma cristologica della relazione di comunione e di dialogo con gli altri.
Assumendone con determinazione la dinamica pasquale descritta ad esempio nel capitolo secondo della lettera ai Filippesi: dove, se si bada al contesto, la kenosi del Cristo, e cioè la dedizione espropriante di sé in obbedienza al Padre nel farsi uomo tra e per gli uomini sino alla croce, è rappresentata al vivo come quella dinamica che sola è capace, per grazia, di accogliere, attuandola, l’esperienza della koinonia reciprocante ed effusiva.
Di qui le dinamiche specifiche che hanno da innervare l’arte formativa: fiducia, reciprocità che chiama alla partecipazione attiva e al protagonismo di ciascuno secondo il suo ruolo come coagonismo di tutti nell’unica impresa, e insieme accompagnamento autorevole e pratica esigente del discernimento comunitario, nell’ascolto di tutte le voci e nell’esercizio effettivo e responsabile del proprio compito.
Circa la tradizione, e cioè la gestazione dell’uomo occidentale, mi pare occorra dire, innanzi tutto, che senz’altro c’è stato un provvidenziale anche se non scontato né sempre pacifico incontro tra la paideía classica e l’ideale umanistico per sé inerente all’evento cristiano: tanto che molti dei valori trasmessi dalla prima hanno ritrovato vitalità ed efficacia durativa grazie alla progressiva e tentativa incarnazione del secondo. Ma occorre insieme ribadire che l’ideale cristiano ha costituito una vera e propria krísis della paideía classica, una destrutturazione e ristrutturazione tanto profonde e radicali quanto il «lógos della croce» – come lo chiama l’apostolo Paolo –, senza rinnegare le precedenti acquisizioni, le colloca però in un orizzonte nuovo, quando non le rovescia e le risignifica.
Detto questo, si può tentare di abbracciare con un solo sguardo la lezione del passato e la sfida del presente, soffermando l’attenzione su di una cifra in certo modo riassuntiva della gestazione dell’uomo occidentale nell’incontro tra paideía classica ed evento cristiano e, in altra forma, dell’impegno che l’esito del moderno oggi c’impone. Questa cifra è quella della persona. Il suo concetto e, prima, la sua esperienza si trovano al crocevia del confluire dell’eredità classica nella sintesi cristiana, ma anche dell’incrinarsi di questa sotto i colpi delle critiche e delle istanze del moderno e perciò della sfida e della chance, oggi, di una sua riproposizione rinnovata.
Il concetto patristico e medievale di persona dice infatti qualcosa che già almeno in parte è detto nella filosofia greca e nel diritto romano, ma insieme lo radica in un’ulteriore profondità e lo dilata a una reale universalità. Persona, infatti, è ogni uomo e ogni donna, nella sua irripetibile e intangibile dignità, in quanto creati e ricreati in Cristo Gesù a immagine e somiglianza di Dio. Di qui la percezione della singolarità di ogni essere umano e l’estensione universale del suo concetto, al di là di ogni condizione e situazione. E ciò è straordinario e rappresenta il guadagno di una soglia imperdibile nella coscienza dell’umanità.
Eppure, la modernità mette in crisi questo concetto e questa esperienza e rimette in gioco, accanto e in definitiva in alternativa al concetto di persona, quello di individuo. Perché? Per rispondere – guardando alle cose con «l’occhio» del Crocifisso – occorre mettere in rilievo, in primis, non le derive ma le istanze che non di rado vi stanno sotto. Si tratta, detto in una parola, dell’istanza della libertà e della coscienza: implicita – eccome – nell’idea cristiana di persona, ma non sufficientemente esplicitata e praticamente declinata a livello antropologico, culturale, sociale, politico. La sfida, dunque, non è quella di aggirare questa istanza o di riassorbirla, ma di farla scaturire dalla profondità stessa dell’eredità, ancora insondata, dell’evento cristiano. L’individuo assolutizzato, infatti, implode in sé: e oggi assistiamo alle conseguenze tragiche di questo fenomeno. Occorre allora – come dice Paul Ricoeur, ma penso anche al nostro Luigi Pareyson –, «éveiller la personne»: quella persona che è, insieme, libertà e comunione, identità e dialogo, irripetibilità e universalità.
Benedetto XVI, rivolgendo la sua parola all’assemblea della Cei lo scorso mese di maggio, ha espresso questo concetto in modo limpido e incisivo: «È essenziale per la persona il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’'io' diventa se stesso solo dal 'tu' e dal 'noi', è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. Solo l’incontro con il 'tu' e con il 'noi' apre l’'io' a se stesso'. Il che significa anche aprirsi, dall’interno della propria identità e – direi – per esigenza intrinseca della propria identità, all’alterità delle altre tradizioni culturali. Cosa – come sappiamo – che esige una ponderata e matura educazione. Del resto, non è proprio questo che ci è proposto nella figura del Crocifisso/Risorto e di Dio stesso come Trinità, e cioè unità di condivisione di reali alterità?
Echeggiando la Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II, si può dire pertanto che la Chiesa è chiamata a maturare la coscienza, i modi e i luoghi per realizzare la sua identità e missione di segno e strumento dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, come si legge nel Vaticano II, diventando in concreto casa e scuola della comunione e del dialogo e facendo emergere quest’esperienza e questa cultura «come principio educativo in tutti i luoghi ove si plasma l’uomo e il cristiano» (cfr.Nmi, 43). Seguendo questa logica si possono intuire alcune armoniche in riferimento allo stile dei luoghi e dei cammini di formazione di cui oggi abbiamo vitale necessità.
In primo luogo, il primato della qualità dei rapporti di trasparenza personale. Ciò chiede d’integrare la forma cristologica della propria conformazione individuale a Cristo – su cui tradizionalmente si è posto l’accento – con la forma cristologica della relazione di comunione e di dialogo con gli altri.
Assumendone con determinazione la dinamica pasquale descritta ad esempio nel capitolo secondo della lettera ai Filippesi: dove, se si bada al contesto, la kenosi del Cristo, e cioè la dedizione espropriante di sé in obbedienza al Padre nel farsi uomo tra e per gli uomini sino alla croce, è rappresentata al vivo come quella dinamica che sola è capace, per grazia, di accogliere, attuandola, l’esperienza della koinonia reciprocante ed effusiva.
Di qui le dinamiche specifiche che hanno da innervare l’arte formativa: fiducia, reciprocità che chiama alla partecipazione attiva e al protagonismo di ciascuno secondo il suo ruolo come coagonismo di tutti nell’unica impresa, e insieme accompagnamento autorevole e pratica esigente del discernimento comunitario, nell’ascolto di tutte le voci e nell’esercizio effettivo e responsabile del proprio compito.
Non occorre aver timore della forza destrutturante della croce neanche oggi. Anzi. Le più lucide, penetranti e promettenti letture del presente, sondato sin nell’abisso della sua tragicità e urgenza, sono proprio quelle operate con l’«occhio» del Cristo crocifisso: come fanno Dietrich Bonhoeffer e Pavel Florenskij, Edith Stein e Simone Weil.
Altrimenti si resta in superficie e si batte l’aria
«Avvenire» del 25 luglio 2010
Nessun commento:
Posta un commento