Tra cronache d'imprese storte al Tour de France e rimbalzi di casi di Ital-doping
di Massimiliano Castellani
L'altro giorno al Tour de France tutti gli occhi umani e gli zoom mediatici, si sono fissati sulla catena del leader della Grande Boucle, Andy Schleck, che scintillante sotto il sole, saltava, lassù in salita, a un passo dalla cima del Balès. Il suo rivale, Alberto Contador, a quel punto, con passo felpato, gli passava davanti e senza curarsene continuava la corsa trionfale, fino a strappargli la maglia gialla. «Un sorpasso eticamente scorretto», ha sentenziato la giuria del Barsport che ha scatenato parte della corte del processo alla tappa con colpevolisti schierati contro lo spagnolo e a difesa del povero lussemburghese. Ma fin qui, che piaccia o no, siamo ancora all’interno degli steccati del regolamento: Contador ha approfittato dell’errore tecnico e dell’incidente di Schleck per conquistare il primato. Fatti i debiti distinguo, è come quando nel calcio il difensore scivola a terra e non è più in grado di fermare la corsa dell’attaccante che indisturbato va in rete. Il gol è valido, il gesto profittatore no. Ma a volte, raramente, c’è anche gente di buon senso, come l’ex allenatore dell’Ascoli Bepi Pillon che ordina ai suoi giocatori di “restituire” subito la rete non etica agli avversari (della Reggina) facendoli segnare senza ostacolarli. Poi, l’Ascoli perde la partita e Pillon per i tifosi della sua squadra diventa il capro espiatorio, perché il rispetto degli avversari nello sport è una legge sì, ma non scritta, quindi mai insegnata né studiata dal popolo degli stadi. Uscendo dallo stadio e tornando sulle strade del Tour, la violazione della legge non scritta sul rispetto dell’avversario diventa carta velina al cospetto dei faldoni giudiziari dell’inchiesta della procura di Padova che punta il dito contro Alessandro Petacchi, indagato per «utilizzo di sostanze e pratiche vietate». Tre lettere, Pfc, avvelenano la corsa e il futuro di uno dei massimi velocisti.
Dall’Epo malefico dell’era Pantani, siamo passati al micidiale Pfc (Perfluorocarburo), una potente sostanza chimica – derivata dal petrolio – che Petacchi potrebbe avere assunto come aiutino o aiutone, per sprintare prima di tutti al traguardo. Il 28 luglio l’ex maglia verde del Tour (l’ha appena persa) dovrà comparire a Padova davanti al giudice Benedetto Roberti per rispondere come persona informata sui fatti. Avrebbe dovuto farlo prima, ma era “legittimato” da impedimento per impegni di lavoro, cioè vincere al Tour – a questo punto con i soliti sospetti – le tappe di Bruxelles e Reims. Il suo mestiere è quello di correre e di farlo in maniera pulita (discorso che dovrebbe valere per tutti i ciclisti, anche amatoriali), ma già nel 2007 l’antidoping lo beccò positivo al Giro d’Italia, alla tappa di Pinerolo. A 36 anni un professionista come Petacchi dovrebbe essere maturo al punto da non ricadere negli stessi diabolici errori, mentre invece, il dubbio di una recidiva c’è tutto in questa ennesima torbida vicenda di cui Avvenire si era occupato (con Pier Augusto Stagi) in aprile, ma che evidentemente torna utile rilanciare nei giorni in cui la kermesse del Tour calamita le attenzioni planetarie. Il rischio di un’informazione, anch’essa sospetta dopata, ora è quello di mettere sullo stesso piano la catena di Schleck e lo “sgarbo” di Contador, con la drammatica realtà del ciclismo che è perennemente ostaggio della sperimentazione medica e dell’abuso di farmaci. Se ci fermiamo a fissare la catena di Schleck e il “legittimo” opportunismo di tappa di Contador, rischiamo di non veder passare, in fuga, il vero “cancro” del ciclismo e dell’intero sport professionistico (nessuna disciplina esclusa): il doping. Elisir necessario per essere al passo con un “sistema dopato” che per ragioni di business chiede il costante superamento dei limiti umani, anche a costo di infrangere irreparabilmente le regole scritte e civilmente condivise. Questo è il male oscuro, troppo spesso oscurato, del ciclismo e dello sport. Una malattia sociale che quando emerge distrugge l’immagine eroica del campione e la credibilità di un intero movimento, condannato a rimettere catene che una volta rimontate saltano subito, un metro più in là.
Spesso per sempre.
Dall’Epo malefico dell’era Pantani, siamo passati al micidiale Pfc (Perfluorocarburo), una potente sostanza chimica – derivata dal petrolio – che Petacchi potrebbe avere assunto come aiutino o aiutone, per sprintare prima di tutti al traguardo. Il 28 luglio l’ex maglia verde del Tour (l’ha appena persa) dovrà comparire a Padova davanti al giudice Benedetto Roberti per rispondere come persona informata sui fatti. Avrebbe dovuto farlo prima, ma era “legittimato” da impedimento per impegni di lavoro, cioè vincere al Tour – a questo punto con i soliti sospetti – le tappe di Bruxelles e Reims. Il suo mestiere è quello di correre e di farlo in maniera pulita (discorso che dovrebbe valere per tutti i ciclisti, anche amatoriali), ma già nel 2007 l’antidoping lo beccò positivo al Giro d’Italia, alla tappa di Pinerolo. A 36 anni un professionista come Petacchi dovrebbe essere maturo al punto da non ricadere negli stessi diabolici errori, mentre invece, il dubbio di una recidiva c’è tutto in questa ennesima torbida vicenda di cui Avvenire si era occupato (con Pier Augusto Stagi) in aprile, ma che evidentemente torna utile rilanciare nei giorni in cui la kermesse del Tour calamita le attenzioni planetarie. Il rischio di un’informazione, anch’essa sospetta dopata, ora è quello di mettere sullo stesso piano la catena di Schleck e lo “sgarbo” di Contador, con la drammatica realtà del ciclismo che è perennemente ostaggio della sperimentazione medica e dell’abuso di farmaci. Se ci fermiamo a fissare la catena di Schleck e il “legittimo” opportunismo di tappa di Contador, rischiamo di non veder passare, in fuga, il vero “cancro” del ciclismo e dell’intero sport professionistico (nessuna disciplina esclusa): il doping. Elisir necessario per essere al passo con un “sistema dopato” che per ragioni di business chiede il costante superamento dei limiti umani, anche a costo di infrangere irreparabilmente le regole scritte e civilmente condivise. Questo è il male oscuro, troppo spesso oscurato, del ciclismo e dello sport. Una malattia sociale che quando emerge distrugge l’immagine eroica del campione e la credibilità di un intero movimento, condannato a rimettere catene che una volta rimontate saltano subito, un metro più in là.
Spesso per sempre.
L’uso di sostanze proibite e le mosse sbagliate non vanno messe sullo stesso piano
«Avvenire» del 21 luglio 2010
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