Dall’enologia del Neolitico a quella dei Galli tramite il «classico» nettare degli dei. Una rassegna su vino e Mediterraneo
di Massimo Centini
In vino veritas: e la verità è il luogo della bellezza, come ci conferma la mostra Vinum nostrum. Arte, scienza e miti del vino nelle civiltà del Mediterraneo antico, allestita a Firenze (fino al 15 maggio prossimo) nel Museo degli Argenti di Palazzo Pitti. Il catalogo della mostra (edito da Giunti) è curato da Giovanni Di Pasquale, Annamaria Ciarallo e Ernesto De Carolis.
Effettivamente questa rassegna ha il ruolo di porre in rilievo non solo gli aspetti eminentemente archeologici e antropologici del rapporto uomo/vino, ma ci consente di scorgere come il «nettare degli dei» sia stato un fondamentale catalizzatore all’interno del linguaggio artistico.
A Palazzo Pitti il compito di raccontare la nascita e la diffusione della coltura delle vite e della produzione del vino è affidata a tutta una serie di reperti, che sono il fil rouge di un viaggio nel mondo antico tra Vicino Oriente e bacino del Mediterraneo.
L’archeologia ci informa che già nel Neolitico l’uomo ebbe modo di apprezzare il prodotto della fermentazione dell’uva: quasi certamente fu un effetto casuale, di cui non restano che flebili tracce in cocci di ceramica. Sarà poi nella civiltà ellenica che il vino troverà il proprio «luogo» di affermazione. Inoltre, il vino (e in un’altra misura l’olio) ha rappresentato uno dei segni di civiltà di una cultura fiorita sulle sponde del Mediterraneo: quell’inebriante bevanda aveva trovato in quei luoghi un proprio fertile territorio in cui le alchimie della vinificazione erano giunte dalle terre a Est.
Seguendo un itinerario che è prevalentemente cronologico, la mostra traccia un racconto scandito dal sapere delle culture in cui il vino ha occupato una posizione rilevante, non solo dal punto di vista enologico; quindi sceglie di soffermarsi sulle implicazioni simboliche, che hanno il loro background nel mito e nella religione.
Per la diffusione del vino svolsero un ruolo determinante fenici ed etruschi, artefici della coltivazione della vitis vinifera nel Mediterraneo. Greci e eomani fecero il resto, portando il vino a emblema della cultura italica.
Un emblema ambito e invidiato: lo conferma il mai esausto mito dei galli che invadono l’Italia attirati dal vino, contro il quale nulla potevano sidro e idromele… A Firenze, per parlarci dell’importanza del vino nel mondo antico, ci sono coppe e servizi da tavola, vetri e contenitori in metallo prezioso: oggetti spesso affini all’oreficeria di alto livello. Ma contribuiscono a scandire la storia del vino oggetti d’uso quotidiano, strumenti per la lavorazione e il trasporto delle uve, anfore e altri oggetti che la ricerca archeologica ha riportato alla luce. Materiali che, opportunamente studiati e correlati alle puntuali testimonianze della letteratura latina, consentono di ricostruire ambienti, metodi e aspetti meno tecnici e più ludici. Attraverso le raffigurazioni artistiche è quindi possibile ridisegnare banchetti, feste e rituali in cui il vino attraversava trasversalmente simposi e culto, piacere della compagnia e illusioni della trasgressione.
La mostra ha una naturale appendice in una serie di itinerari nell’antica Enotria (tra la Campania e la Basilicata): vengono infatti suggerite visite a Pompei dove l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. sigillò tracce di viticoltura oggi reimpiantate. E poi le altre località note attraverso gli autori classici che ne cantano il ruolo determinante nella produzione del vino: il Falerno, il Pompeiano, il Sorrentino. E ancora Ischia, l’antica Pithecusae, nel cui museo archeologico si trova la testimonianza più antica della viticoltura campana «La coppa di Nestore» datata a circa 3000 anni fa.
In Lucania sarà possibile ricercare le tracce della popolazione autoctona più antica: gli Enotri, che abitavano l’Enotria, cioè la terra del vino… Nell’area del Vulture si trovano estesi vigneti coltivati ad aglianico: il termine che qualcuno considera la corruzione di vitis hellenica, il vitigno che secondo la tradizione maggiormente diffusa (ma non priva di campanilismo) fu importato dall’antica Grecia dagli Enotri: autentici iniziatori dell’arte di produrre una bevanda che non per niente è considerata «degli dei»…
A Palazzo Pitti il compito di raccontare la nascita e la diffusione della coltura delle vite e della produzione del vino è affidata a tutta una serie di reperti, che sono il fil rouge di un viaggio nel mondo antico tra Vicino Oriente e bacino del Mediterraneo.
L’archeologia ci informa che già nel Neolitico l’uomo ebbe modo di apprezzare il prodotto della fermentazione dell’uva: quasi certamente fu un effetto casuale, di cui non restano che flebili tracce in cocci di ceramica. Sarà poi nella civiltà ellenica che il vino troverà il proprio «luogo» di affermazione. Inoltre, il vino (e in un’altra misura l’olio) ha rappresentato uno dei segni di civiltà di una cultura fiorita sulle sponde del Mediterraneo: quell’inebriante bevanda aveva trovato in quei luoghi un proprio fertile territorio in cui le alchimie della vinificazione erano giunte dalle terre a Est.
Seguendo un itinerario che è prevalentemente cronologico, la mostra traccia un racconto scandito dal sapere delle culture in cui il vino ha occupato una posizione rilevante, non solo dal punto di vista enologico; quindi sceglie di soffermarsi sulle implicazioni simboliche, che hanno il loro background nel mito e nella religione.
Per la diffusione del vino svolsero un ruolo determinante fenici ed etruschi, artefici della coltivazione della vitis vinifera nel Mediterraneo. Greci e eomani fecero il resto, portando il vino a emblema della cultura italica.
Un emblema ambito e invidiato: lo conferma il mai esausto mito dei galli che invadono l’Italia attirati dal vino, contro il quale nulla potevano sidro e idromele… A Firenze, per parlarci dell’importanza del vino nel mondo antico, ci sono coppe e servizi da tavola, vetri e contenitori in metallo prezioso: oggetti spesso affini all’oreficeria di alto livello. Ma contribuiscono a scandire la storia del vino oggetti d’uso quotidiano, strumenti per la lavorazione e il trasporto delle uve, anfore e altri oggetti che la ricerca archeologica ha riportato alla luce. Materiali che, opportunamente studiati e correlati alle puntuali testimonianze della letteratura latina, consentono di ricostruire ambienti, metodi e aspetti meno tecnici e più ludici. Attraverso le raffigurazioni artistiche è quindi possibile ridisegnare banchetti, feste e rituali in cui il vino attraversava trasversalmente simposi e culto, piacere della compagnia e illusioni della trasgressione.
La mostra ha una naturale appendice in una serie di itinerari nell’antica Enotria (tra la Campania e la Basilicata): vengono infatti suggerite visite a Pompei dove l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. sigillò tracce di viticoltura oggi reimpiantate. E poi le altre località note attraverso gli autori classici che ne cantano il ruolo determinante nella produzione del vino: il Falerno, il Pompeiano, il Sorrentino. E ancora Ischia, l’antica Pithecusae, nel cui museo archeologico si trova la testimonianza più antica della viticoltura campana «La coppa di Nestore» datata a circa 3000 anni fa.
In Lucania sarà possibile ricercare le tracce della popolazione autoctona più antica: gli Enotri, che abitavano l’Enotria, cioè la terra del vino… Nell’area del Vulture si trovano estesi vigneti coltivati ad aglianico: il termine che qualcuno considera la corruzione di vitis hellenica, il vitigno che secondo la tradizione maggiormente diffusa (ma non priva di campanilismo) fu importato dall’antica Grecia dagli Enotri: autentici iniziatori dell’arte di produrre una bevanda che non per niente è considerata «degli dei»…
«Avvenire» del 30 luglio 2010
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