Il patto che la letteratura sembra avere stretto con la legge sta moltiplicando i suoi già numerosi frutti, come dimostrano alcune uscite recenti. Tra queste, la raccolta Un colpo di vento (Bompiani) del penalista Von Schirach, che sceglie la via della non fiction, riportando casi autentici. E l'ultimo libro di Scott Turow, Innocente (Mondadori) di qualità molto migliore del Grisham al quale viene implacabilmente omologato, il cui ultimo romanzo è uscito anch'esso da Mondadori con il titolo Ritorno a Ford County
di Clotilde Bertoni
«Questa dunque è la vostra tesi?»... «Nossignore. Che tesi? Questa è la verità, signor presidente»: lo scambio di battute tra giudice e imputato, che chiude un racconto di Pirandello, è espressione folgorante di un problema di lungo corso, lo scarto tra la mobilità sinuosa o imponderabile degli eventi e la fissità di una legge troppo ancorata alle proprie norme e ai propri formulari. Per certi versi la legge somiglia alla letteratura, stringe la realtà in ricostruzioni narrative, segue la sua rifrazione in una pluralità di ottiche; ma per altri versi se ne discosta totalmente, visto che deve oltrepassare le ambiguità, raggiungere conclusioni nitide, trasformare l'interpretazione in verdetto. Forse proprio perciò per la letteratura è un polo di attrazione costante: dalle Eumenidi di Eschilo fino ai capolavori di Dostoevskij o Kafka, e a una profusione di altri testi otto-novecenteschi (parecchi meritoriamente riediti in una collana di Sellerio diretta da Remo Ceserani), l'espansione del filone giudiziario è sterminata.
Professionisti mutati in narratori
Sono ormai tanti gli uomini di legge che fanno della loro professione non materia di testimonianza diretta ma spunto per ambiziose rielaborazioni. Rielaborazioni peraltro diversissime: la dimestichezza con l'argomento, se è comunque rivendicata o reclamizzata come punto di forza, sfocia negli esiti più disparati; alcune uscite recenti possono dimostrarlo. A volte la mediazione letteraria è tenue: la raccolta Un colpo di vento, debutto alla scrittura dell'avvocato penalista Ferdinand Von Schirach (Bompiani, pp. 237, euro 18), sceglie la via della non fiction, riportando casi autentici mediante collaudate tecniche compositive: l'articolazione scenica, il crescendo di suspense, l'avvicendamento dei punti di vista. Il libro ha avuto un immediato, vorticoso successo, probabilmente per motivi differenti, che vanno dal fascino immancabile delle storie di nera alla curiosità suscitata dall'autore (nipote del Baldur Von Schirach leader nazista, coinvolto in una delle pagine giudiziarie più aspre della storia, il processo di Norimberga); ma a determinare il successo è stata anche la capacità dell'autore di trasmettere l'intensità di una vasta esperienza e insieme di assestarla su coordinate rassicuranti. Attraverso una sfilza di situazioni eterogenee - tragedie familiari, fatti di malavita, incastri curiosi di casualità (quelli che secondo Barthes costituiscono il vero interesse degli episodi di cronaca) - il testo sa portare a galla questioni significative, quali le peculiarità del diritto tedesco o le inadempienze di varia entità delle istituzioni (dai drammi dell'emarginazione e dell'immigrazione clandestina retrostanti a vicende di rapina e prostituzione, fino a una svista della burocrazia che infligge al custode di un museo un lavoro così monotono da farlo impazzire); ma al tempo stesso, finisce per attutire la carica di angoscia delle realtà messe a fuoco. Intanto perché l'immersione nella prospettiva dei personaggi tende a ribadire le versioni dei fatti più accettabili (ad esempio, nel primo racconto, Fähner, l'adozione del punto di vista di un uxoricida ne avalla pienamente le dichiarazioni, che addossano alla moglie uccisa tutte le responsabilità del suo gesto); inoltre, e soprattutto, perché il ruolo della difesa, sebbene non esaltato, fornisce alla narrazione un saldo epicentro e un implicito lustro.
Pur sottolineando i limiti della propria funzione e pur evitando faziosità vistose (i meriti dei magistrati sono ampiamente riconosciuti), l'autore si avvicina più volte al seducente e improbabile prototipo di Perry Mason, l'avvocato che oltre a rappresentare una componente della giustizia, ne tampona taumaturgicamente le falle. In veste di personaggio abbaglia clienti e colleghi con intuizioni brillanti e zelo instancabile (in Summertime individua una prova sfuggita a tutti, nell'Etiope - storia del riscatto di un reietto che ricorda quella dei Miserabili - rintraccia fortunosamente un testimone decisivo); e in veste di narratore sembra voler estendere ai lettori lo stupore e l'ammirazione, graduando l'esposizione del suo operato, differendone lo scioglimento: lo scrittore che scruta amarezze e impacci della giustizia diventa anche, surrettiziamente, l'eroe positivo che li controbilancia.
Capita, d'altronde, che una logica pressoché opposta ispiri una visione ancora più rettilinea: la copiosa produzione narrativa di un altro avvocato, John Grisham - da decenni scrittore a tempo pieno, esponente di punta del legal thriller statunitense - è improntata non all'apologia ma a un rigetto categorico della professione, innestato per lo più sullo stesso schema: il contrasto tra prestigiosi studi legali che tutelano imponenti società d'affari o coprono loschi giri di interessi, e la gente comune loro vittima. In questo schema gli avvocati ricoprono stavolta il ruolo degli antieroi, ripugnanti o simpatici, ma sempre soccombenti: che siano complici dell'inquinamento della legge, come quelli dei racconti compresi nell'ultimo libro, Ritorno a Ford County (Mondadori, pp. 327, euro 20), oppure ancora giovani e onesti (in tempo per cambiare vita e lavoro), come quelli del Socio o dell'Uomo della pioggia, non sono comunque in grado di alterarne gli ingranaggi.
Una chiave di denuncia
La convinzione sulla stasi della dimensione raffigurata si traduce in una raffigurazione statica a sua volta, che la superficiale varietà delle trame provvede appena a lubrificare; il tema giudiziario non è considerato in se stesso ma piuttosto usato come chiave di denuncia globale dell'apparato, denuncia che peraltro non si snoda in una vera ricognizione ma si arresta sulla soglia di un moralismo generico, comodo da riciclare come da condividere.
Anche sguardi assai più penetranti approdano a volte a una prospettiva monoliticamente pessimista: nei popolari romanzi del giudice Giancarlo De Cataldo, affondi negli scandali e misteri della nostra repubblica (Einaudi ne ha appena ripubblicato uno, Il padre e lo straniero, pp. 142, euro 14), la legge appare di solito facilmente manipolabile o irrimediabilmente debole; nel più famoso, Romanzo criminale, è incarnata da un altro topico antieroe, il giudice Borgia, ben più integro ma anche ben più debole degli eroi negativi che affollano la vicenda (i banditi della Magliana, il commissario spregiudicato), il quale, dopo aver ingaggiato qualche vana battaglia, finisce per gettare la spugna, prima tentando e fallendo il concorso di notaio (per inciso, un misconoscimento un po' ingiusto della difficoltà del concorso di magistrato), poi passando dal penale al civile.
Ma la frequentazione ravvicinata della legge può ispirare anche un orientamento più complesso: tra i contemporanei uno dei più noti è quello di Scott Turow, procuratore e poi avvocato (peraltro implacabilmente omologato a Grisham in quanto maestro del legal thriller, a dimostrazione di come le etichette di genere possano offuscare le differenze di valore); probabilmente il più capace sia di sfruttare a fondo la familiarità con procedure, tic, magagne del settore, sia di delinearne una rappresentazione letteraria sottile, che non si stringe né in esaltazione né in presa di distanze. Situati tutti nello stesso microcosmo - la Kindle County, corrispettivo immaginario di Chicago - i suoi romanzi compongono una piccola commedia umana (rimettendo spesso in gioco in ruoli diversi gli stessi personaggi, secondo il modello balzachiano), che si fa via via più mossa e sfumata: mentre i primi ruotano su una prospettiva dominante, i successivi (specie Errori reversibili, che affronta da varie angolature il problema della pena di morte) ne alternano diverse, distribuendo più imprevedibilmente luci e ombre, evitando di contrapporre rigidamente ragioni e torti.
L'ultima tappa di questa produzione, il romanzo appena comparso Innocente (Mondadori, pp. 429, euro 20), si riallaccia alla prima, il romanzo d'esordio (e di maggior successo) di Turow, Presunto innocente, proseguendo a ventidue anni di distanza (corrispondenti a quelli intercorsi dalla pubblicazione) la storia del protagonista, il procuratore Rusty Sabich. Al pari di altri personaggi dell'autore, Sabich è in bilico tra un fermo attaccamento alla legge, vista come baluardo di equilibrio e rettitudine, e pulsioni di irrazionalità che vanno dai ricordi di un'infanzia infelice a slanci di vitalità repressa; lacerazione che lo trascina due volte dall'altra parte della barricata. Accusato ingiustamente nel primo romanzo dell'assassinio dell'ex amante, nel nuovo, ormai pienamente riscattato (giudice di corte d'Appello, candidato alla Corte suprema), cade preda di una coazione a ripetere che il corso degli eventi dilata con ironica specularità: di nuovo invischiato in una relazione sentimentale, è di nuovo accusato di omicidio, stavolta non dell'amante, ma della moglie.
Da un lato, secondo un classico cliché, la maledizione del sequel fa capolino: il testo tradisce un accanimento virtuosistico un po' forzato a omaggiare e insieme emulare la propria abilità, insistendo nel ricalcare e variare i punti salienti dell'intreccio originario, e a volte scivolando in effetti di ripetizione scolorita (mentre il primo legame amoroso derivava dalla percezione nella donna di un dolore rimosso simile al proprio, questo non sembra che uno scontato tentativo di esorcizzare la minaccia della vecchiaia). Ma d'altro lato, sa scavare ulteriormente nei problemi giudiziari; specie perché, grazie all'affinamento della sua tecnica, l'ottica del protagonista si moltiplica in un ventaglio di sguardi differenti.
Una ripresa dei nodi cruciali
Il secondo processo dimostra ancor più del primo la difficoltà della legge di fare giustizia: oltre a non assodare la verità, prende un andamento insoddisfacente e inceppato, sospinto da un misto di prove concrete, cavilli giuridici e trovate spettacolari; la narrazione lo assimila a una «grande messinscena», tornando su una questione nevralgica della letteratura giudiziaria, il peso ambivalente giocato nei dibattimenti dall'arte retorica e dal senso teatrale, in grado di dare risonanza a fatti e argomentazioni ma anche di distorcerli o adulterarli. Inoltre, il contrasto inscenato non corrisponde più a una secca antinomia di valori: il procuratore in entrambi i casi accusatore e antagonista di Rusty, Tommy Molto - che in Presunto innocente era senz'altro personaggio negativo, insieme fosco e grottesco - acquista maggior spessore, perché il racconto segue anche il suo punto di vista, esplorandone le ragioni; il suo accanimento contro l'imputato e persino quello ben più scorretto di un suo vice appaiono mossi non tanto da smanie di rivalsa o prestigio, quanto da una granitica presunzione di colpevolezza, dalla tensione a schiacciare i dati concreti su certezze astratte. La giustizia risulta messa a repentaglio non da noncuranza ma al contrario da un intento troppo pervicace di fare trionfare le sue esigenze; il suo corso è manomesso, più che da interessi personali, dall'illusione di supremazia etica e conoscitiva a cui la posizione di autorità può indurre.
Innocente riprende così nodi cruciali della riflessione sulla giustizia: la tentazione di cristallizzare il paradigma indiziario, convertendo la congettura da molla propulsiva dell'indagine in suo pregiudiziale punto d'approdo (un rischio che anche Von Schirach segnala, affermando «Siamo convinti di sapere qualcosa per certo, ci fissiamo e spesso è tutt'altro che facile ricredersi»); gli sbilanciamenti retaggio del potere conferito al magistrato, così delicato da maneggiare e d'altronde così spesso (oggi lo sappiamo più che mai), osteggiato dagli altri poteri indiscriminatamente. Una ripresa non troppo approfondita, ma acuta, sia perché calata in un contesto tratteggiato felicemente sia perché non racchiusa in una valutazione univoca: in grado, come le opere giudiziarie più significative, di scandagliare intralci, disfunzioni, manchevolezze del giudizio, senza risolversi in atto di giudizio a sua volta.
Professionisti mutati in narratori
Sono ormai tanti gli uomini di legge che fanno della loro professione non materia di testimonianza diretta ma spunto per ambiziose rielaborazioni. Rielaborazioni peraltro diversissime: la dimestichezza con l'argomento, se è comunque rivendicata o reclamizzata come punto di forza, sfocia negli esiti più disparati; alcune uscite recenti possono dimostrarlo. A volte la mediazione letteraria è tenue: la raccolta Un colpo di vento, debutto alla scrittura dell'avvocato penalista Ferdinand Von Schirach (Bompiani, pp. 237, euro 18), sceglie la via della non fiction, riportando casi autentici mediante collaudate tecniche compositive: l'articolazione scenica, il crescendo di suspense, l'avvicendamento dei punti di vista. Il libro ha avuto un immediato, vorticoso successo, probabilmente per motivi differenti, che vanno dal fascino immancabile delle storie di nera alla curiosità suscitata dall'autore (nipote del Baldur Von Schirach leader nazista, coinvolto in una delle pagine giudiziarie più aspre della storia, il processo di Norimberga); ma a determinare il successo è stata anche la capacità dell'autore di trasmettere l'intensità di una vasta esperienza e insieme di assestarla su coordinate rassicuranti. Attraverso una sfilza di situazioni eterogenee - tragedie familiari, fatti di malavita, incastri curiosi di casualità (quelli che secondo Barthes costituiscono il vero interesse degli episodi di cronaca) - il testo sa portare a galla questioni significative, quali le peculiarità del diritto tedesco o le inadempienze di varia entità delle istituzioni (dai drammi dell'emarginazione e dell'immigrazione clandestina retrostanti a vicende di rapina e prostituzione, fino a una svista della burocrazia che infligge al custode di un museo un lavoro così monotono da farlo impazzire); ma al tempo stesso, finisce per attutire la carica di angoscia delle realtà messe a fuoco. Intanto perché l'immersione nella prospettiva dei personaggi tende a ribadire le versioni dei fatti più accettabili (ad esempio, nel primo racconto, Fähner, l'adozione del punto di vista di un uxoricida ne avalla pienamente le dichiarazioni, che addossano alla moglie uccisa tutte le responsabilità del suo gesto); inoltre, e soprattutto, perché il ruolo della difesa, sebbene non esaltato, fornisce alla narrazione un saldo epicentro e un implicito lustro.
Pur sottolineando i limiti della propria funzione e pur evitando faziosità vistose (i meriti dei magistrati sono ampiamente riconosciuti), l'autore si avvicina più volte al seducente e improbabile prototipo di Perry Mason, l'avvocato che oltre a rappresentare una componente della giustizia, ne tampona taumaturgicamente le falle. In veste di personaggio abbaglia clienti e colleghi con intuizioni brillanti e zelo instancabile (in Summertime individua una prova sfuggita a tutti, nell'Etiope - storia del riscatto di un reietto che ricorda quella dei Miserabili - rintraccia fortunosamente un testimone decisivo); e in veste di narratore sembra voler estendere ai lettori lo stupore e l'ammirazione, graduando l'esposizione del suo operato, differendone lo scioglimento: lo scrittore che scruta amarezze e impacci della giustizia diventa anche, surrettiziamente, l'eroe positivo che li controbilancia.
Capita, d'altronde, che una logica pressoché opposta ispiri una visione ancora più rettilinea: la copiosa produzione narrativa di un altro avvocato, John Grisham - da decenni scrittore a tempo pieno, esponente di punta del legal thriller statunitense - è improntata non all'apologia ma a un rigetto categorico della professione, innestato per lo più sullo stesso schema: il contrasto tra prestigiosi studi legali che tutelano imponenti società d'affari o coprono loschi giri di interessi, e la gente comune loro vittima. In questo schema gli avvocati ricoprono stavolta il ruolo degli antieroi, ripugnanti o simpatici, ma sempre soccombenti: che siano complici dell'inquinamento della legge, come quelli dei racconti compresi nell'ultimo libro, Ritorno a Ford County (Mondadori, pp. 327, euro 20), oppure ancora giovani e onesti (in tempo per cambiare vita e lavoro), come quelli del Socio o dell'Uomo della pioggia, non sono comunque in grado di alterarne gli ingranaggi.
Una chiave di denuncia
La convinzione sulla stasi della dimensione raffigurata si traduce in una raffigurazione statica a sua volta, che la superficiale varietà delle trame provvede appena a lubrificare; il tema giudiziario non è considerato in se stesso ma piuttosto usato come chiave di denuncia globale dell'apparato, denuncia che peraltro non si snoda in una vera ricognizione ma si arresta sulla soglia di un moralismo generico, comodo da riciclare come da condividere.
Anche sguardi assai più penetranti approdano a volte a una prospettiva monoliticamente pessimista: nei popolari romanzi del giudice Giancarlo De Cataldo, affondi negli scandali e misteri della nostra repubblica (Einaudi ne ha appena ripubblicato uno, Il padre e lo straniero, pp. 142, euro 14), la legge appare di solito facilmente manipolabile o irrimediabilmente debole; nel più famoso, Romanzo criminale, è incarnata da un altro topico antieroe, il giudice Borgia, ben più integro ma anche ben più debole degli eroi negativi che affollano la vicenda (i banditi della Magliana, il commissario spregiudicato), il quale, dopo aver ingaggiato qualche vana battaglia, finisce per gettare la spugna, prima tentando e fallendo il concorso di notaio (per inciso, un misconoscimento un po' ingiusto della difficoltà del concorso di magistrato), poi passando dal penale al civile.
Ma la frequentazione ravvicinata della legge può ispirare anche un orientamento più complesso: tra i contemporanei uno dei più noti è quello di Scott Turow, procuratore e poi avvocato (peraltro implacabilmente omologato a Grisham in quanto maestro del legal thriller, a dimostrazione di come le etichette di genere possano offuscare le differenze di valore); probabilmente il più capace sia di sfruttare a fondo la familiarità con procedure, tic, magagne del settore, sia di delinearne una rappresentazione letteraria sottile, che non si stringe né in esaltazione né in presa di distanze. Situati tutti nello stesso microcosmo - la Kindle County, corrispettivo immaginario di Chicago - i suoi romanzi compongono una piccola commedia umana (rimettendo spesso in gioco in ruoli diversi gli stessi personaggi, secondo il modello balzachiano), che si fa via via più mossa e sfumata: mentre i primi ruotano su una prospettiva dominante, i successivi (specie Errori reversibili, che affronta da varie angolature il problema della pena di morte) ne alternano diverse, distribuendo più imprevedibilmente luci e ombre, evitando di contrapporre rigidamente ragioni e torti.
L'ultima tappa di questa produzione, il romanzo appena comparso Innocente (Mondadori, pp. 429, euro 20), si riallaccia alla prima, il romanzo d'esordio (e di maggior successo) di Turow, Presunto innocente, proseguendo a ventidue anni di distanza (corrispondenti a quelli intercorsi dalla pubblicazione) la storia del protagonista, il procuratore Rusty Sabich. Al pari di altri personaggi dell'autore, Sabich è in bilico tra un fermo attaccamento alla legge, vista come baluardo di equilibrio e rettitudine, e pulsioni di irrazionalità che vanno dai ricordi di un'infanzia infelice a slanci di vitalità repressa; lacerazione che lo trascina due volte dall'altra parte della barricata. Accusato ingiustamente nel primo romanzo dell'assassinio dell'ex amante, nel nuovo, ormai pienamente riscattato (giudice di corte d'Appello, candidato alla Corte suprema), cade preda di una coazione a ripetere che il corso degli eventi dilata con ironica specularità: di nuovo invischiato in una relazione sentimentale, è di nuovo accusato di omicidio, stavolta non dell'amante, ma della moglie.
Da un lato, secondo un classico cliché, la maledizione del sequel fa capolino: il testo tradisce un accanimento virtuosistico un po' forzato a omaggiare e insieme emulare la propria abilità, insistendo nel ricalcare e variare i punti salienti dell'intreccio originario, e a volte scivolando in effetti di ripetizione scolorita (mentre il primo legame amoroso derivava dalla percezione nella donna di un dolore rimosso simile al proprio, questo non sembra che uno scontato tentativo di esorcizzare la minaccia della vecchiaia). Ma d'altro lato, sa scavare ulteriormente nei problemi giudiziari; specie perché, grazie all'affinamento della sua tecnica, l'ottica del protagonista si moltiplica in un ventaglio di sguardi differenti.
Una ripresa dei nodi cruciali
Il secondo processo dimostra ancor più del primo la difficoltà della legge di fare giustizia: oltre a non assodare la verità, prende un andamento insoddisfacente e inceppato, sospinto da un misto di prove concrete, cavilli giuridici e trovate spettacolari; la narrazione lo assimila a una «grande messinscena», tornando su una questione nevralgica della letteratura giudiziaria, il peso ambivalente giocato nei dibattimenti dall'arte retorica e dal senso teatrale, in grado di dare risonanza a fatti e argomentazioni ma anche di distorcerli o adulterarli. Inoltre, il contrasto inscenato non corrisponde più a una secca antinomia di valori: il procuratore in entrambi i casi accusatore e antagonista di Rusty, Tommy Molto - che in Presunto innocente era senz'altro personaggio negativo, insieme fosco e grottesco - acquista maggior spessore, perché il racconto segue anche il suo punto di vista, esplorandone le ragioni; il suo accanimento contro l'imputato e persino quello ben più scorretto di un suo vice appaiono mossi non tanto da smanie di rivalsa o prestigio, quanto da una granitica presunzione di colpevolezza, dalla tensione a schiacciare i dati concreti su certezze astratte. La giustizia risulta messa a repentaglio non da noncuranza ma al contrario da un intento troppo pervicace di fare trionfare le sue esigenze; il suo corso è manomesso, più che da interessi personali, dall'illusione di supremazia etica e conoscitiva a cui la posizione di autorità può indurre.
Innocente riprende così nodi cruciali della riflessione sulla giustizia: la tentazione di cristallizzare il paradigma indiziario, convertendo la congettura da molla propulsiva dell'indagine in suo pregiudiziale punto d'approdo (un rischio che anche Von Schirach segnala, affermando «Siamo convinti di sapere qualcosa per certo, ci fissiamo e spesso è tutt'altro che facile ricredersi»); gli sbilanciamenti retaggio del potere conferito al magistrato, così delicato da maneggiare e d'altronde così spesso (oggi lo sappiamo più che mai), osteggiato dagli altri poteri indiscriminatamente. Una ripresa non troppo approfondita, ma acuta, sia perché calata in un contesto tratteggiato felicemente sia perché non racchiusa in una valutazione univoca: in grado, come le opere giudiziarie più significative, di scandagliare intralci, disfunzioni, manchevolezze del giudizio, senza risolversi in atto di giudizio a sua volta.
«Il Manifesto» del 13 luglio 2010
Nessun commento:
Posta un commento