di Andrea Ichino
Molte lettere hanno fatto seguito al mio articolo sull'educazione fisica nelle scuole italiane di sabato scorso. Molte e appassionate. Da meritare risposta. E un chiarimento iniziale: chiedersi se l'educazione fisica debba essere impartita come servizio pubblico o come bene privato secondo regole di mercato non significa proporre che debba essere "abolita". Anzi, un obiettivo del mio articolo era proprio invitare a riflettere su come migliorare l'offerta di questo servizio.
Quindi si tranquillizzino i lettori preoccupati, forse per via di un titolo volutamente provocatorio, che il mio obiettivo fosse far impigrire la gioventù italiana. Il punto è un altro: quando riteniamo che un bene sia d'interesse pubblico, è preferibile che sia lo stato a produrlo in prima persona oppure otteniamo un risultato migliore se la produzione del servizio è affidata ai privati e lo stato si limita a un controllo sul rispetto di standard di qualità e d'indirizzo? Nel caso dell'istruzione stradale, ad esempio, abbiamo scelto il secondo metodo, malgrado i morti su strada non siano pochi.
Come nel caso dell'educazione fisica, l'insegnamento dell'inglese è un altro esempio particolarmente interessante. Se le famiglie italiane fossero così felici dell'inglese che i loro figli imparano a scuola, non spenderebbero così tanti soldi per "internazionalizzare" i loro figli. Mi si dirà che questa osservazione indiretta non sostituisce una seria valutazione delle scuole e degli insegnanti, che dovrebbe riguardare non solo la matematica e l'italiano, ma anche l'inglese e l'educazione fisica, proprio per poter premiare chi, nonostante condizioni di lavoro disagiate, riesce a dare un ottimo servizio, e aiutare chi invece non ci riesce. Concordo pienamente. Ma allo stato attuale delle informazioni, il comportamento stesso delle famiglie italiane suggerisce che, sia nel caso delle lingue sia in quello dell'istruzione fisica, le tasse utilizzate a questi fini non siano spese nel modo migliore.
Il problema riguarda in realtà molti altri servizi pubblici, incluso il sistema universitario dal quale io ricevo il mio stipendio. Non esiste una risposta unica, valida per tutti i casi, al quesito generale che il mio articolo ha posto. In Italia siamo abituati a pensare che tutti questi servizi debbano essere pubblici, anche se non ci rendiamo bene conto di quanto ci costano (e il mio calcolo per l'istruzione fisica serviva solo a questo). Però protestiamo per l'asfissiante pressione fiscale e l'inefficienza dello stato. Un teorema fondamentale della scienza economica, invece, suggerisce che un mercato perfettamente concorrenziale sia il modo migliore per produrre e scambiare un bene. E i problemi di equità, che il mercato da solo non sa risolvere quando le risorse non sono equamente distribuite, si possono alleviare tassando i ricchi e distribuendo ai poveri voucher vincolati all'acquisto del bene, senza che sia lo stato a produrlo. Se c'è una chance che questo suggerimento degli economisti possa essere sensato, perché non porsi il problema senza preclusioni ideologiche, non per eliminare il bene, ma solo per produrlo meglio?
Quindi si tranquillizzino i lettori preoccupati, forse per via di un titolo volutamente provocatorio, che il mio obiettivo fosse far impigrire la gioventù italiana. Il punto è un altro: quando riteniamo che un bene sia d'interesse pubblico, è preferibile che sia lo stato a produrlo in prima persona oppure otteniamo un risultato migliore se la produzione del servizio è affidata ai privati e lo stato si limita a un controllo sul rispetto di standard di qualità e d'indirizzo? Nel caso dell'istruzione stradale, ad esempio, abbiamo scelto il secondo metodo, malgrado i morti su strada non siano pochi.
Come nel caso dell'educazione fisica, l'insegnamento dell'inglese è un altro esempio particolarmente interessante. Se le famiglie italiane fossero così felici dell'inglese che i loro figli imparano a scuola, non spenderebbero così tanti soldi per "internazionalizzare" i loro figli. Mi si dirà che questa osservazione indiretta non sostituisce una seria valutazione delle scuole e degli insegnanti, che dovrebbe riguardare non solo la matematica e l'italiano, ma anche l'inglese e l'educazione fisica, proprio per poter premiare chi, nonostante condizioni di lavoro disagiate, riesce a dare un ottimo servizio, e aiutare chi invece non ci riesce. Concordo pienamente. Ma allo stato attuale delle informazioni, il comportamento stesso delle famiglie italiane suggerisce che, sia nel caso delle lingue sia in quello dell'istruzione fisica, le tasse utilizzate a questi fini non siano spese nel modo migliore.
Il problema riguarda in realtà molti altri servizi pubblici, incluso il sistema universitario dal quale io ricevo il mio stipendio. Non esiste una risposta unica, valida per tutti i casi, al quesito generale che il mio articolo ha posto. In Italia siamo abituati a pensare che tutti questi servizi debbano essere pubblici, anche se non ci rendiamo bene conto di quanto ci costano (e il mio calcolo per l'istruzione fisica serviva solo a questo). Però protestiamo per l'asfissiante pressione fiscale e l'inefficienza dello stato. Un teorema fondamentale della scienza economica, invece, suggerisce che un mercato perfettamente concorrenziale sia il modo migliore per produrre e scambiare un bene. E i problemi di equità, che il mercato da solo non sa risolvere quando le risorse non sono equamente distribuite, si possono alleviare tassando i ricchi e distribuendo ai poveri voucher vincolati all'acquisto del bene, senza che sia lo stato a produrlo. Se c'è una chance che questo suggerimento degli economisti possa essere sensato, perché non porsi il problema senza preclusioni ideologiche, non per eliminare il bene, ma solo per produrlo meglio?
«Il Sole 24 Ore» del 27 luglio 2010
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