Lo studioso Usa Novak riflette sul neo-ateismo di Dawkins e rilancia: già i classici antichi indicavano nell’intimo dell’uomo il luogo di Dio
di Carlo Cardia
Con un libro denso e vivace – Nessuno può vedere Dio – Michael Novak discute con gli esponenti della cultura ateistica più recente e contesta le critiche, spesso aggressive e virulente, alla religione e al cristianesimo. Non ogni tesi di Novak è condivisibile, e v’è qualche traccia di ingenuità americana, ma l’argomentare è incalzante, tocca aspetti classici del pensiero razionalista, riformulati da Sam Harris, Daniel C. Dennet, Richard Dawkins. I loro testi, dice Novak, hanno l’obiettivo primario di «demolire le pretese morali e intellettuali del cristianesimo», «accelerare la scomparsa della fede biblica in America».
Il topos più conosciuto delle filosofie scettiche è noto. La fede, il colloquio che l’uomo instaura con Dio, sono pure illusioni, si fondano su fragilità personali, possono consolare ma sono prive d’ogni possibile verifica. Si ripropone la distruttiva critica del materialismo ottocentesco, perché a sconfiggere la fede basta il rovesciamento della piramide: non è Dio che parla all’uomo, è l’uomo che parla con un Dio inventato, per entrare in una realtà virtuale, dove tutto è bello, giusto, santo. Però, poiché il mondo non è nulla di tutto ciò, ne consegue che uno dei massimi insegnamenti evangelici, per il quale il regno di Dio è dentro di noi, è solo epifenomeno dei caratteri deboli. Novak confuta l’assioma ateistico e ricorda ai suoi interlocutori atei che nel dialogo con Dio l’uomo esalta le proprie capacità intellettive, riflette su se stesso, pone domande esigenti per intravedere le risposte ultime, motiva il proprio agire, si arricchisce interiormente. La centralità dell’assunto ateistico, e di quello cristiano, sta nella funzione che la coscienza svolge nell’esperienza umana, indirizzandola e migliorandola, svilendola o deprimendola. Ma per gli atei la coscienza decide tutto da sola, per i cristiani essa ha nel profondo il seme della verità e del bene, può parlare con Dio. Senza la maturazione giudaico-cristiana, l’uomo moderno non esisterebbe, parte della produzione intellettuale e spirituale sarebbe impedita: dall’arte alla filosofia, dalla scoperta delle scienze naturali alla teologia, al compimento di gesti che trascendono l’interesse egoistico.
Non tutto è scritto nel Vecchio e Nuovo Testamento, o in altri testi sacri, ed alcune verità sono state intuite da chi avvertiva le angustie del politeismo. Frammenti di grande saggezza si trovano nella classicità, ad esempio in Seneca che in una Lettera a Lucilio lo invita a non avvicinarsi all’orecchio di un idolo per sapere ciò che vuole la divinità, perché in realtà «Dio è vicino a te, è con te e dentro di te». I colloqui con Dio hanno tante modulazioni. Di gioia, quando l’uomo ammira l’armonia che lo circonda e ringrazia per i doni ricevuti; ma anche di dolore e di rimorso, come quando Caino cerca di giustificare nel proprio intimo, cioè di fronte a Dio, il delitto massimo che ha compiuto, e l’ha travolto. Vi sono dialoghi di disperazione, se la sventura ci investe e ci chiediamo il perché del dolore, della malvagità, restiamo spaesati, quasi sentiamo il silenzio di Dio e della nostra anima. Ed esistono i colloqui diretti a scegliere tra il bene e il male, confessare le colpe e riprendere la strada, capire ciò che siamo e vogliamo davvero. L’uomo non può sfiorare la trascendenza, ma sa che la sua anima «ha sete di Dio, del Dio vivente; quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Sal, 42-43, 2-4). L’uomo vede l’ingiustizia, ma chiede a Dio di concedere «la tua giustizia ai retti di cuore» (Sal, 36, 11); per chi conosce la malattia è scritto che sarà «beato l’uomo che ha cura del debole» e «il Signore lo sosterrà sul letto del dolore». E soprattutto l’uomo compie il male e confessa a Dio: «Le mie colpe mi opprimono e non posso più vedere, ma tu o Signore degnati di liberarmi, accorri in mio aiuto» (Sal, 40, 13-14).
Infine, c’è lo scandalo del dolore, del male nel mondo, cui si reagisce in modo diversi. Tanti gridano e protestano con sé stessi e con Dio, come fece a lungo Giobbe. Osserva Novak che «non c’è nulla di sbagliato nel protestare, nulla di sbagliato nel lottare contro Dio» anche perché Dio stesso dice nella Bibbia: «Venite e discutete con me». Ma, aggiunge Novak, ci sono molte «persone che invece dicono semplicemente: 'Sia fatta la Tua volontà' E da ciò ricevono calma e forza». Nella sofferenza, e nelle prove più dure, sta la difficoltà ma anche il possibile trionfo della conoscenza di Dio. Può essere il trionfo di chi ha fatto il male per tanto tempo e ritrova il perdono, che lo stupisce perché si era quasi condannato da solo. Si può avere perfino il trionfo apparente del male che piega il cuore dell’uomo, lo porta ad annientarsi, respingere la fede, chiudersi nell’amarezza senza fine. In questo caso è l’uomo che interrompe il colloquio con Dio, non il contrario, e resterà il mistero di una misericordia divina che si dispiegherà nel consumarsi dei tempi quando a tutti sarà permesso conoscere ogni cosa.
Michael Novak, NESSUNO PUÒ VEDERE DIO. Il destino di atei e credenti, Liberal Edizioni, pp. 300, € 22,00
Il topos più conosciuto delle filosofie scettiche è noto. La fede, il colloquio che l’uomo instaura con Dio, sono pure illusioni, si fondano su fragilità personali, possono consolare ma sono prive d’ogni possibile verifica. Si ripropone la distruttiva critica del materialismo ottocentesco, perché a sconfiggere la fede basta il rovesciamento della piramide: non è Dio che parla all’uomo, è l’uomo che parla con un Dio inventato, per entrare in una realtà virtuale, dove tutto è bello, giusto, santo. Però, poiché il mondo non è nulla di tutto ciò, ne consegue che uno dei massimi insegnamenti evangelici, per il quale il regno di Dio è dentro di noi, è solo epifenomeno dei caratteri deboli. Novak confuta l’assioma ateistico e ricorda ai suoi interlocutori atei che nel dialogo con Dio l’uomo esalta le proprie capacità intellettive, riflette su se stesso, pone domande esigenti per intravedere le risposte ultime, motiva il proprio agire, si arricchisce interiormente. La centralità dell’assunto ateistico, e di quello cristiano, sta nella funzione che la coscienza svolge nell’esperienza umana, indirizzandola e migliorandola, svilendola o deprimendola. Ma per gli atei la coscienza decide tutto da sola, per i cristiani essa ha nel profondo il seme della verità e del bene, può parlare con Dio. Senza la maturazione giudaico-cristiana, l’uomo moderno non esisterebbe, parte della produzione intellettuale e spirituale sarebbe impedita: dall’arte alla filosofia, dalla scoperta delle scienze naturali alla teologia, al compimento di gesti che trascendono l’interesse egoistico.
Non tutto è scritto nel Vecchio e Nuovo Testamento, o in altri testi sacri, ed alcune verità sono state intuite da chi avvertiva le angustie del politeismo. Frammenti di grande saggezza si trovano nella classicità, ad esempio in Seneca che in una Lettera a Lucilio lo invita a non avvicinarsi all’orecchio di un idolo per sapere ciò che vuole la divinità, perché in realtà «Dio è vicino a te, è con te e dentro di te». I colloqui con Dio hanno tante modulazioni. Di gioia, quando l’uomo ammira l’armonia che lo circonda e ringrazia per i doni ricevuti; ma anche di dolore e di rimorso, come quando Caino cerca di giustificare nel proprio intimo, cioè di fronte a Dio, il delitto massimo che ha compiuto, e l’ha travolto. Vi sono dialoghi di disperazione, se la sventura ci investe e ci chiediamo il perché del dolore, della malvagità, restiamo spaesati, quasi sentiamo il silenzio di Dio e della nostra anima. Ed esistono i colloqui diretti a scegliere tra il bene e il male, confessare le colpe e riprendere la strada, capire ciò che siamo e vogliamo davvero. L’uomo non può sfiorare la trascendenza, ma sa che la sua anima «ha sete di Dio, del Dio vivente; quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Sal, 42-43, 2-4). L’uomo vede l’ingiustizia, ma chiede a Dio di concedere «la tua giustizia ai retti di cuore» (Sal, 36, 11); per chi conosce la malattia è scritto che sarà «beato l’uomo che ha cura del debole» e «il Signore lo sosterrà sul letto del dolore». E soprattutto l’uomo compie il male e confessa a Dio: «Le mie colpe mi opprimono e non posso più vedere, ma tu o Signore degnati di liberarmi, accorri in mio aiuto» (Sal, 40, 13-14).
Infine, c’è lo scandalo del dolore, del male nel mondo, cui si reagisce in modo diversi. Tanti gridano e protestano con sé stessi e con Dio, come fece a lungo Giobbe. Osserva Novak che «non c’è nulla di sbagliato nel protestare, nulla di sbagliato nel lottare contro Dio» anche perché Dio stesso dice nella Bibbia: «Venite e discutete con me». Ma, aggiunge Novak, ci sono molte «persone che invece dicono semplicemente: 'Sia fatta la Tua volontà' E da ciò ricevono calma e forza». Nella sofferenza, e nelle prove più dure, sta la difficoltà ma anche il possibile trionfo della conoscenza di Dio. Può essere il trionfo di chi ha fatto il male per tanto tempo e ritrova il perdono, che lo stupisce perché si era quasi condannato da solo. Si può avere perfino il trionfo apparente del male che piega il cuore dell’uomo, lo porta ad annientarsi, respingere la fede, chiudersi nell’amarezza senza fine. In questo caso è l’uomo che interrompe il colloquio con Dio, non il contrario, e resterà il mistero di una misericordia divina che si dispiegherà nel consumarsi dei tempi quando a tutti sarà permesso conoscere ogni cosa.
Michael Novak, NESSUNO PUÒ VEDERE DIO. Il destino di atei e credenti, Liberal Edizioni, pp. 300, € 22,00
«Avvenire» del 17 luglio 2010
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