Un rapporto governativo Usa sui test genetici fa luce su favole e affari
di Giacomo Samek Lodovici
Ieri, un giornale sono stati pubblicati anche in Italia i risultati di un rapporto del Government accountability office (Gao), un organismo governativo americano che ha smentito impietosamente l’attendibilità dei test genetici per conoscere il rischio di contrarre una malattia che ha componenti genetiche. Li ha resi noti "Repubblica", e ha fatto bene. La Gao ha inviato, infatti, un campione di Dna dello stesso soggetto a diversi laboratori ottenendo risultati contraddittori e ha poi mandato dei campioni di altri soggetti, di nuovo ricevendo previsioni molto contrastanti. È emerso, insomma, che questi test non sono per nulla affidabili e, a volte, procurano angoscia e terrore per previsioni infauste (per esempio di cancro) ma assolutamente infondate. Tutto ciò a caro prezzo: negli Stati Uniti il costo dei test oscilla tra i 300 ed i 1.000 dollari e il business per i signori di questo mercato dev’essere davvero cospicuo, visto che solo per pubblicità fa spendere ogni anno tre miliardi dollari; senza contare, ovviamente, che prospettare la spada di Damocle di una malattia è il modo migliore per vendere farmaci.
Le contraddizioni dei referti dipendono da molte cause: dal modo di interpretare i dati, dalla storia sanitaria familiare dei soggetti, dall’etnia di appartenenza (che determina una differente vulnerabilità alle patologie) e così via. Oltre a ciò, sull’insorgere di una malattia incidono anche le condizioni psichiche del soggetto, in forza di quella profonda unità che (a dispetto di tanti proclamati dualismi) caratterizza psiche e corpo. Inoltre, come ha detto al giornale romano Francesco Cavalli Sforza – filosofo nonché divulgatore nel campo della genetica –, anche quando le malattie hanno una forte causa ereditaria sono comunque connesse a fattori ambientali e alla storia individuale della persona. Così, per Cavalli Sforza, «nessun uomo è figlio solo dei suoi geni», il nostro destino non è scritto una volta per sempre nel Dna. Con le debite specificazioni, lo stesso discorso si potrebbe ripetere – lo ha fatto per esempio il neuroscienziato Filippo Tempia in un’intervista su "Avvenire" del 9 giugno – in merito all’influsso del cervello sul nostro comportamento.
Tornando alla questione genetica, preme sottolineare il tema della libertà perché si sente non di rado parlare del «gene della violenza», del «gene del tradimento», eccetera. Questi discorsi affermano che tutto il nostro agire è scritto nei geni, negano la libertà umana e quindi cancellano la nostra responsabilità morale (e, in fondo, anche giuridica). Tuttavia, con buona pace dei tentativi di dimostrare che l’uomo è una macchina, non è possibile ridurre l’essere umano alla sola componente biologica, perché noi siamo costituiti anche da una dimensione spirituale, quell’anima di cui parlano, già prima del cristianesimo, alcuni filosofi greci. Per dimostrarne l’esistenza esistono diversi argomenti filosofici, che il lettore può ricostruire anche su alcuni manuali di storia del pensiero. In definitiva, il nostro Dna può implicare delle predisposizioni, dei tratti caratteriali e temperamentali, ma, nondimeno, grazie allo spirito siamo in grado, almeno in una certa misura, di trascendere i condizionamenti, possiamo sperimentare la vertigine della libertà, siamo capaci di interrompere la prevedibilità e l’inderogabilità dei nessi fisici di causa-effetto e di dare inizio a qualcosa di nuovo. Come ha scritto la filosofa Hannah Arendt, agire significa incominciare e l’inizio dell’uomo «non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa bensì di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore».
Le contraddizioni dei referti dipendono da molte cause: dal modo di interpretare i dati, dalla storia sanitaria familiare dei soggetti, dall’etnia di appartenenza (che determina una differente vulnerabilità alle patologie) e così via. Oltre a ciò, sull’insorgere di una malattia incidono anche le condizioni psichiche del soggetto, in forza di quella profonda unità che (a dispetto di tanti proclamati dualismi) caratterizza psiche e corpo. Inoltre, come ha detto al giornale romano Francesco Cavalli Sforza – filosofo nonché divulgatore nel campo della genetica –, anche quando le malattie hanno una forte causa ereditaria sono comunque connesse a fattori ambientali e alla storia individuale della persona. Così, per Cavalli Sforza, «nessun uomo è figlio solo dei suoi geni», il nostro destino non è scritto una volta per sempre nel Dna. Con le debite specificazioni, lo stesso discorso si potrebbe ripetere – lo ha fatto per esempio il neuroscienziato Filippo Tempia in un’intervista su "Avvenire" del 9 giugno – in merito all’influsso del cervello sul nostro comportamento.
Tornando alla questione genetica, preme sottolineare il tema della libertà perché si sente non di rado parlare del «gene della violenza», del «gene del tradimento», eccetera. Questi discorsi affermano che tutto il nostro agire è scritto nei geni, negano la libertà umana e quindi cancellano la nostra responsabilità morale (e, in fondo, anche giuridica). Tuttavia, con buona pace dei tentativi di dimostrare che l’uomo è una macchina, non è possibile ridurre l’essere umano alla sola componente biologica, perché noi siamo costituiti anche da una dimensione spirituale, quell’anima di cui parlano, già prima del cristianesimo, alcuni filosofi greci. Per dimostrarne l’esistenza esistono diversi argomenti filosofici, che il lettore può ricostruire anche su alcuni manuali di storia del pensiero. In definitiva, il nostro Dna può implicare delle predisposizioni, dei tratti caratteriali e temperamentali, ma, nondimeno, grazie allo spirito siamo in grado, almeno in una certa misura, di trascendere i condizionamenti, possiamo sperimentare la vertigine della libertà, siamo capaci di interrompere la prevedibilità e l’inderogabilità dei nessi fisici di causa-effetto e di dare inizio a qualcosa di nuovo. Come ha scritto la filosofa Hannah Arendt, agire significa incominciare e l’inizio dell’uomo «non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa bensì di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore».
«Avvenire» del 29 luglio 2010
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