Esce finalmente anche da noi un testo edito in Germania nel 1923 L’analisi Sergej Mel’gunov descrive la politica repressiva dei bolscevichi
di Paolo Mieli
Le stragi cominciarono subito dopo la presa del potere Contro i contadini Lo storico Andrea Graziosi: nelle campagne vi fu il ricorso sistematico alla presa di ostaggi, inclusi donne e bambini, e alla loro esecuzioneMolto spesso la Russia zarista viene descritta dagli studiosi come il «regno delle tenebre» ma era molto meno dispotica rispetto al regime sovietico
Quasi novanta anni. Tanto c’è voluto perché fosse pubblicato in Italia (in autunno, da Jaca Book) il fondamentale libro di Sergej Petrovic Mel’gunov Il terrore rosso in Russia 1918-1923. Mel’gunov - scrive Sergio Rapetti in un bel ritratto a lui dedicato che compare nelle prime pagine del libro - discendente di un alto dignitario e governatore ai tempi del regno di Caterina II, collaboratore di Tolstoj (e successivamente curatore della sua opera), socialista, responsabile degli Archivi dopo la rivoluzione di febbraio del 1917, perseguitato dalla Ceka tra il 1918 e il 1922, emigrò a Praga, Berlino (dove nel ‘23 diede alle stampe la prima edizione di questo volume) e poi a Parigi, dove si stabilì definitivamente. Fu un convinto e attivo anticomunista; ma durante la Seconda guerra mondiale, a differenza di moltissimi francesi, rifiutò di collaborare con i tedeschi. Morì nel maggio del 1956, avendo avuto la fortuna di conoscere, pochi mesi prima del decesso, il rapporto sui crimini di Stalin che Nikita Krusciov aveva presentato al XX Congresso del Pcus. Il terrore rosso è stato pubblicato, come si è detto, in Germania, ma anche in Francia, Inghilterra, Spagna, Stati Uniti e un po’ovunque. Ma non in Italia, nonostante sia da tempo considerato un classico da cui non può prescindere chiunque si occupi dell’argomento. Il libro è stato scritto alla vigilia della morte di Lenin e spiega, a ridosso degli eventi, come tutte le degenerazioni del sistema sovietico siano riconducibili, appunto, a Lenin. «Gli esponenti bolscevichi», osservava già allora, all’inizio degli anni Venti, Mel’gunov, «sono soliti presentare il terrore come conseguenza della collera delle masse popolari: i bolscevichi sarebbero stati costretti a ricorrere al terrore per le pressioni della classe operaia... il terrore istituzionalizzato si sarebbe limitato a ricondurre a determinate forme giuridiche l’inevitabile ricorso alla giustizia sommaria invocata dal popolo». Niente di più falso: «È difficile immaginarsi un punto di vista più farisaico di questo», proseguiva Mel’gunov, «e si può agevolmente dimostrare, fatti alla mano, quanto tali affermazioni siano lontane dalla realtà». Ed è quel che lui fa, anticipando di decenni il giudizio sull’inscindibile rapporto tra Lenin e Stalin che poi sarà nella Storia dell’Urss (Rizzoli) di Michail Geller e Aleksandr Nekric, nei Tre perché della rivoluzione russa (Rubbettino) di Richard Pipes, ne La coscienza della rivoluzione (Sansoni) di R. V. Daniels. Se ancora oggi qui in Italia, quantomeno nella pubblicistica, è uso comune scaricare su Stalin e solo su Stalin gli orrori della Russia post rivoluzionaria, ciò è frutto anche della mancata pubblicazione di libri come questo.
Nell’interessante saggio introduttivo al libro di Mel’gunov, Paolo Sensini accusa senza mezzi termini «la vulgata storiografica compiacente, fraudolenta omertosa e quasi sempre mistificante» che per anni e anni ha impedito di far luce su questi aspetti. Se la prende, Sensini, con la «favola tenacemente radicata in Occidente» secondo la quale - per dar luce alla stagione successiva «splendente» sotto la stella di Lenin - l’epoca zarista viene dipinta come «avvolta dalle tenebre». Menzogna, sostiene Sensini: nella Russia prerivoluzionaria la «società civile esisteva e stava strutturandosi anche grazie a una libertà di stampa che si estendeva ogni giorno di più». A partire dal 1912, Lenin poté far uscire per anni, legalmente e senza che nessuno ne minacciasse la chiusura, il suo giornale «Pravda», sul quale tra il maggio del ‘12 e il luglio del ‘14 apparvero ben trecento suoi articoli. Il numero delle famiglie contadine titolari di proprietà passò da due milioni e ottocentomila (pari al 33 per cento dei dodici milioni di famiglie) nel 1905 a sette milioni e trecentomila nel 1915 (pari al 56 per cento delle famiglie che nel frattempo erano cresciute a tredici milioni) con un aumento percentuale del 260 per cento in appena dieci anni. Fu lo stesso Lenin che, dopo la rivoluzione d’Ottobre, trasformò quel mondo in un incubo; Stalin fece il resto. Nel saggio introduttivo al libro da lui stesso curato, L’età del comunismo sovietico (anch’esso pubblicato da Jaca Book), Pier Paolo Poggio si sofferma sulla circostanza che «le interpretazioni sulla rivoluzione e l’Urss debbono fare i conti con una formidabile costruzione mitologica, senza pari nel corso del Novecento, affermatasi in Occidente e nel mondo, in singolare contrasto con la realtà». L’azione di Lenin e quella di Stalin vengono viste, e giustificate, quali «vettori della modernizzazione e industrializzazione, sia pure a costi spaventosamente alti». Un giudizio che secondo Poggio è da tempo «improponibile» e definitivamente «smentito dall’abbondante storiografia ormai a disposizione». Ma che resiste, osserva ancora Poggio, in virtù della «forza mitopoietica della rivoluzione russa a fronte delle continue smentite che essa ricevette da subito e poi nel corso di tutta la storia dell’Urss». È venuto invece il momento di chiamare le cose con il loro nome: dispotismo, tirannia, sterminio, genocidio, crimini contro l’umanità. Fin dai primi passi della rivoluzione. Se oggi questi termini possono essere usati anche in Italia, lo si deve in particolare agli approfonditi studi di Andrea Graziosi, il quale, nel fondamentale L’Urss di Lenin e Stalin (Il Mulino), così come nel saggio Stalin e il comunismo comparso nel libro I volti del potere (Laterza), ha messo in evidenza l’assoluta continuità tra i due «tiranni» che guidarono l’Unione Sovietica tra il 1917 e il 1953. «Stalin apprese da Lenin la gestione spietata del potere, l’uso elastico dei precetti ideologici a seconda delle circostanze», ha scritto. Leninismo e stalinismo possono essere definiti «tirannie»? Sì, risponde Graziosi: ancorché diverse («perché diversi furono i problemi che Lenin e Stalin furono chiamati ad affrontare e diversa era la personalità e la cultura del tiranno»), le si può definire in tutto e per tutto tirannie.
Il culto della violenza fu tale fin dall’inizio. Già nel 1906 Lenin scriveva che per la presa del potere si doveva procedere a una guerra rivoluzionaria «disperata, sanguinosa, di sterminio». Ma quel che poi capitò fu in più occasioni dettato dalle circostanze. Alla fine del 1916, pochi mesi prima della rivoluzione d’Ottobre, Lenin era sostanzialmente un isolato. I contatti con il partito in Russia glieli teneva la moglie, Nadezda Krupskaja, nella cui agenda si trovavano solo ventisei indirizzi, sedici dei quali appartenevano a militanti non più attivi e, dei restanti dieci, sette erano a Pietrogrado, a Mosca o al confino e tre nel restante impero russo. Le idee in principio erano poco chiare. Subito dopo la rivoluzione, alla fine del 1917, Lenin confuse l’arretramento in cui versava il Paese a causa della guerra con una nuova fase economica che prefigurava il futuro, si compiacque del fatto che la necessità economica avesse «condotto la Russia ad uno scambio in natura» e sostenne che «in questo si trova il germe dell’economia socialista». I problemi si fecero presto assai complicati. L’uso della forza servì ad affrontarli (e, per così dire, risolverli) in tempi rapidi. Riprendendo una citazione di Marx su Pietro il Grande, Lenin nel 1918 invitò i bolscevichi a impiegare contro gli avversari della rivoluzione «metodi barbari». Sempre contro quei nemici furono mossi reparti detti «di sterminio», esortati a reprimere «senza pietà». Accanto alle uccisioni, scrive Graziosi, «vi fu il ricorso sistematico alla presa di ostaggi, inclusi donne e bambini, e alla loro esecuzione; alla deportazione, prima di elementi ostili come i proprietari terrieri e i loro famigliari, poi di famiglie contadine e anche di interi villaggi». Nel maggio del 1918, c’è il primo spostamento forzato di popolazione dell’era sovietica, a danno degli abitanti di quattro villaggi cosacchi. Su ordine di Lenin, prosegue Graziosi, vi furono in quel periodo «impiccagioni e torture di massa», esecuzioni all’impronta per punire l’uccisione di un comunista (la cui vita «valeva» da dodici a cinquanta vite contadine), per castigare i villaggi «covi» delle rivolte o del «banditismo» (nei decreti si giunse a minacciare la fucilazione di tutti i maschi tra i diciotto e i cinquant’anni), bombardamenti aerei e distruzione non solo di questi covi, ma anche di interi villaggi colpevoli di essersi dedicati al «libero commercio». Questa offensiva viene definita da un dirigente, in una lettera dell’epoca al Comitato centrale, «una politica di sterminio di massa senza alcuna discriminazione». Le prime repressioni «preventivo-categoriali», come la «decosacchizzazione» nel 1919, avvengono ai tempi di Lenin, e pure l’uso della carestia del 1921-22 per liquidare i nemici, accompagnata dalla deportazione degli intellettuali e dalla repressione dei religiosi, «insegnò qualcosa a Stalin». Anche se, avverte lo storico, «il salto di qualità e di scala da lui (Stalin) operato dopo il 1928 è innegabile». Appresa la lezione applicata da Lenin ai cosacchi, Stalin, negli anni Trenta, fece deportare i cittadini sovietici di origine coreana, «colpevoli» di vivere ai confini con la Manciuria, ciò che - secondo lui - avrebbe favorito l’infiltrazione di spie giapponesi. Duecentomila di questi coreani furono spostati in Asia centrale e trentamila morirono durante il viaggio, «pagando un prezzo altissimo alla metodica, e lucidamente paranoica, sospettosità del despota». Ma torniamo agli anni che precedettero l’ascesa di Stalin. Quando, ai tempi della guerra civile, il generale Judenic marciò su Pietrogrado, Lenin scrisse che era «diabolicamente importante massacrarlo». Nell’agosto del 1921, per liquidare la rivolta di Tambov, il generale bolscevico Tukhacevskij ricorse a gas asfissianti per eliminare i ribelli rifugiati nei boschi. Sempre a Tambov, Antonov-Ovseenko, l’eroe dell’Ottobre, fece fucilare decine di ostaggi nelle piazze principali dei paesi per convincere gli abitanti a denunciare i rivoltosi e le loro famiglie. Nella fase finale della guerra civile, scrive Graziosi, nacque un «culto della violenza» che trovò seguaci in rappresentanti locali del regime leninista, i quali sostenevano che era «giunta l’ora di abbandonare le pretese umanitarie» ed esortavano all’applicazione di «misure durissime, inumane». E, come traccia del culto della violenza diffuso tra i bolscevichi, Graziosi cita un passo del romanzo L’Armata a cavallo di Isaac Babel’, in cui vi è la descrizione compiaciuta di come si impara a schiacciare sotto i piedi con gusto la testa di un’oca. In Crimea, ultimo baluardo dei militari «bianchi» avversari della rivoluzione, gli uomini di Lenin chiedono ai giovani ufficiali di presentarsi, promettendo loro la libertà in cambio di una semplice registrazione, dopodiché li uccidono uno ad uno con i metodi descritti ne La scheggia di Vladimir Jakovlevic Zazubrin: esecuzioni individuali di centinaia di persone compiute da boia professionisti. Vengono così massacrate circa dodicimila persone. Lo stesso sistema che sarà poi adottato da Stalin nel 1937-38 e ancora, dopo la spartizione della Polonia, con gli ufficiali polacchi a Katyn.
Del resto è ormai accertato che i Gulag nacquero e divennero subito operativi già ai tempi di Lenin. Come si racconta, con un’ampia documentazione, nell’interessante L’epoca tremenda. Voci dal Gulag delle Solovki (Morcelliana) di Maurizio Campa. Nel libro si parla di quei primi campi di concentramento creati nel 1923 nelle isole Solovki, nel Mar Bianco, campi nei quali si registrarono casi di antropofagia: gli internati, disperati per la fame, giunsero a cibarsi di fegato, cuore e polmoni asportati ai defunti. Che tra l’era di Lenin e quella di Stalin in tema di orrori ci sia una sostanziale continuità lo si ritrova anche, ampiamente documentato, in Sospetto e silenzio di Orlando Figes (Mondadori). Negli anni Trenta perirono centinaia di migliaia di persone non perché le si volesse sterminare, come sarebbe accaduto con il nazismo, ma per quella che Andrea Graziosi definisce una «negligenza criminale» nei confronti di un gruppo sociale che Stalin aveva chiesto di «liquidare». Fu «una politica di sterminio» che in Ucraina e in Asia centrale «prese caratteri genocidi» come è evidente anche dal modo con cui «Stalin giustificò l’adozione, in piena carestia, di una legge che puniva con anni di lavoro forzato i contadini trovati a rubare poche spighe». E qui i morti furono milioni. Vennero liquidati persino i cantastorie di villaggio per tagliare le radici della cultura contadina. Furono colpiti addirittura i collezionisti di francobolli per recidere ogni legame tra l’Urss e la comunità internazionale. Molte delle politiche staliniane, ribadisce Graziosi, «presentarono caratteri genocidi, tesi cioè ad eliminare il problema attraverso l’eliminazione del gruppo al quale ne veniva imputata la responsabilità». «Stalin e il suo regime», è il verdetto dello storico, «furono responsabili a più riprese e su grande scala di crimini contro l’umanità». Poi però (nonostante alcuni rilevanti errori di strategia militare) Stalin fu uno dei vincitori della Seconda guerra mondiale. La vittoria su nazismo e fascismo «fu anche di Stalin e certi modi di celebrarla non possono prendere le distanze da lui». Il che - sostiene Graziosi - costituisce la «maledizione della storia russa», dal momento che Stalin, malgrado l’immenso danno da lui arrecato al suo Paese, è «incancellabile». Questo intreccio ha in qualche modo determinato «la distruzione, o forse l’autodistruzione, di una parte significativa della sinistra occidentale», che non ha saputo fare i conti con il dittatore «né sul piano morale, dove pure sarebbe stato facile, né, e soprattutto, forse per salvare la sua utopia, su quello intellettuale». Ha scritto Vasilij Grossman che già negli anni di Lenin la violenza aveva cessato «di essere uno strumento per diventare l’oggetto di un’adorazione quasi mistica e religiosa». Con il che, secondo Pier Paolo Poggio, l’eterogenesi dei fini è giunta a compimento. Nel Terrore rosso Mel’gunov scriveva che si era in presenza di «un sistema di metodica attuazione della violenza e dell’arbitrio dell’apoteosi senza remore dell’omicidio inteso come strumento di dominio, alla quale apoteosi non era ancora mai arrivato nessun potere al mondo. Non si tratta di eccessi per i quali si può cercare questa o quella spiegazione nella particolare psicosi indotta dalla guerra civile... L’atrocità morale del terrore, la sua azione disgregante sulla psiche umana, consistono più che nei singoli omicidi in sé, o nel loro numero più o meno consistente, proprio nel suo essere elevato a sistema». E leggendo queste pagine si può dire che tutto era sufficientemente chiaro (ed elaborato) già nel 1923.
Uscirà in autunno da Jaca Book il libro di Sergej Mel’gunov Il terrore rosso in Russia. Altri testi che evidenziano la continuità fra Lenin e Stalin sono Tre perché della rivoluzione russa di Richard Pipes (Rubbettino), La coscienza della rivoluzione di Robert V. Daniels (Sansoni), L’epoca tremenda di Maurizio Campa (Morcelliana), Sospetto e silenzio di Orlando Figes (Mondadori). Da segnalare il saggio di Andrea Graziosi Stalin e il comunismo, nel volume I volti del potere (Laterza). Allo stesso Graziosi si deve un’ampia storia dell’Unione Sovietica edita dal Mulino in due volumi: L’Urss di Lenin e Stalin e L’Urss dal trionfo al degrado.
Uscirà in autunno da Jaca Book il libro di Sergej Mel’gunov Il terrore rosso in Russia. Altri testi che evidenziano la continuità fra Lenin e Stalin sono Tre perché della rivoluzione russa di Richard Pipes (Rubbettino), La coscienza della rivoluzione di Robert V. Daniels (Sansoni), L’epoca tremenda di Maurizio Campa (Morcelliana), Sospetto e silenzio di Orlando Figes (Mondadori). Da segnalare il saggio di Andrea Graziosi Stalin e il comunismo, nel volume I volti del potere (Laterza). Allo stesso Graziosi si deve un’ampia storia dell’Unione Sovietica edita dal Mulino in due volumi: L’Urss di Lenin e Stalin e L’Urss dal trionfo al degrado.
«Corriere della Sera» del 27 luglio 2010
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