Oltre la secolarizzazione
di Davide Rondoni
La parata dell’amore, la love parade si è trasformata in un incubo. In una tragedia. Come se nell’inutile, vano macello di questi poveri ragazzi, tra cui una italiana – bella e sensibile – di 21 anni, ci fosse un marchio strano, un avviso strano di questa epoca strana. Come in altri casi, ad esempio nell’indimenticato stadio Heysel, lo show è andato avanti. Dopo molte ore, molti delle migliaia dei ragazzi partecipanti non sapevano nulla di quanto accaduto, storditi dal ballo, dal bere e da altro. Ma l’avviso, il segno che leggiamo dentro questo ballare che si trasforma in morte, dentro questa parata che da eccitante si fa morente, non è quello immediato, evidente che hanno colto subito gli stessi organizzatori. Che hanno deciso: mai più. Non è solo un segno, ennesimo, di «eccesso giovanile» su cui non è giusto speculare. E non si tratta solo del segno che qualcuno ha chiamato del fascino della «tribù».
È vero, c’è in questo potente richiamo a radunarsi, a 'sentirsi' vicini, a condividere ritmo e corpo, a condividere modi e gergo, sì c’è un segno dell’ancestrale richiamo degli uomini a fare tribù. Richiamo che le esperienze e i mezzi della globalizzazione, la coscienza delle distanze e dei rapidi modi per superarle, non hanno illanguidito, semmai fortificato e reso potente, più esplosivo. Ma c’è di più di quell’antico segno. La parade è un corteo. Una processione. So che storceranno il naso. Ma è così. Si tratta di una ripresa della usanza antica che, sempre a sfondo religioso, ha mosso cortei di ogni genere, per celebrare dei, imperatori o generali che si credono dei, per ringraziare il cielo di vittorie, per supplicare interventi celesti, per la fine di calamità, o per l’arrivo delle piogge. È un grande rito. Secolarizzato, come dicono, con una parola che vuol dire poco o niente. Che cosa ormai è secolare e cosa no? Davvero ci sono differenze, in questa epoca di suggestioni e di superstizioni?
Il fatto è proprio questo, il segno purtroppo scritto anche con il sangue, come sempre accade quando la nostra attenzione intorpidita deve riscuotersi e guardare. Un grande rito nel cuore d’Europa. Un grande rito che somiglia (nella sua eccezionale differenza) ai grandi ritrovi dei giovani lanciati da Giovanni Paolo II – ancora storceranno il naso quelli di prima. Un rito di una «tribù» che ha come dei le immagini dell’Amore, della Musica, e della loro medesima Tribù. Come antichissimi riti. Che segno, che avviso per coloro che pensano che l’uomo sia progredito abbandonando quei culti e quei riti. Che segno per coloro che anche sulla pagine dei nostri giornali e nei parlamenti europei si consumano il cervello per mostrare che credere in Gesù Cristo e mostrare segni cristiani sia oscuro e antidemocratico mentre avere altre fedi, altre superstizioni, e sì, altri riti e 'parate' no? Che avviso, che segno per tali cervelli torbidi e oziosi. La loro lotta senza quartiere al cristianesimo, alla Croce e al Crocifisso, punta a far scomparire o a far rientrare nelle catacombe i riti cristiani, le processioni, le preghiere. E se si faranno largo – e già si fanno largo – altre processioni, altri riti, uomini dediti ad altri dei? Altro che secolarizzazione. Come per i primi cristiani si tratta di vivere in un mondo pieno di adoratori. Di riti strani, dai risvolti spesso violenti, di poteri oscuri. Questo il segno che arriva da Duisburg. Lo stiamo leggendo?
È vero, c’è in questo potente richiamo a radunarsi, a 'sentirsi' vicini, a condividere ritmo e corpo, a condividere modi e gergo, sì c’è un segno dell’ancestrale richiamo degli uomini a fare tribù. Richiamo che le esperienze e i mezzi della globalizzazione, la coscienza delle distanze e dei rapidi modi per superarle, non hanno illanguidito, semmai fortificato e reso potente, più esplosivo. Ma c’è di più di quell’antico segno. La parade è un corteo. Una processione. So che storceranno il naso. Ma è così. Si tratta di una ripresa della usanza antica che, sempre a sfondo religioso, ha mosso cortei di ogni genere, per celebrare dei, imperatori o generali che si credono dei, per ringraziare il cielo di vittorie, per supplicare interventi celesti, per la fine di calamità, o per l’arrivo delle piogge. È un grande rito. Secolarizzato, come dicono, con una parola che vuol dire poco o niente. Che cosa ormai è secolare e cosa no? Davvero ci sono differenze, in questa epoca di suggestioni e di superstizioni?
Il fatto è proprio questo, il segno purtroppo scritto anche con il sangue, come sempre accade quando la nostra attenzione intorpidita deve riscuotersi e guardare. Un grande rito nel cuore d’Europa. Un grande rito che somiglia (nella sua eccezionale differenza) ai grandi ritrovi dei giovani lanciati da Giovanni Paolo II – ancora storceranno il naso quelli di prima. Un rito di una «tribù» che ha come dei le immagini dell’Amore, della Musica, e della loro medesima Tribù. Come antichissimi riti. Che segno, che avviso per coloro che pensano che l’uomo sia progredito abbandonando quei culti e quei riti. Che segno per coloro che anche sulla pagine dei nostri giornali e nei parlamenti europei si consumano il cervello per mostrare che credere in Gesù Cristo e mostrare segni cristiani sia oscuro e antidemocratico mentre avere altre fedi, altre superstizioni, e sì, altri riti e 'parate' no? Che avviso, che segno per tali cervelli torbidi e oziosi. La loro lotta senza quartiere al cristianesimo, alla Croce e al Crocifisso, punta a far scomparire o a far rientrare nelle catacombe i riti cristiani, le processioni, le preghiere. E se si faranno largo – e già si fanno largo – altre processioni, altri riti, uomini dediti ad altri dei? Altro che secolarizzazione. Come per i primi cristiani si tratta di vivere in un mondo pieno di adoratori. Di riti strani, dai risvolti spesso violenti, di poteri oscuri. Questo il segno che arriva da Duisburg. Lo stiamo leggendo?
«Avvenire» del 27 luglio 2010
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